E' solo parzialmente un film su David Bowie, “e certamente non è il biopic che ne descrive la carriera immersa in una compilation di greatest hits come di recente abbiamo avuto modo di vedere nei cinema”, spiega il regista, evidentemente alludendo ai vari film su Freddy Mercury ed Elton John
Il lato fragile delle stelle. Il cinema lo ama, lo corteggia, lo illumina. Non poteva passare inosservato quello del giovanissimo David Jones, musicista e artista di talento, ossessionato dalla malattia mentale che girava in famiglia. Chi avrebbe garantito che lui non avrebbe sviluppato negli anni quella schizofrenia di cui erano affetti il fratello Terry e alcune zie? Ma il genio ha prevalso, e come folgorato d’improvviso, l’artista ha scelto di anticipare ogni nevrosi beffandola di un alterego: nasceva così Ziggy Stardust, e con esso la stella di David Bowie decollava verso l’Olimpo.
Per questo in Stardust, presentato alla Festa del Cinema di Roma, è assente l’iconografia a tutti nota dell’immenso musicista: essa, di fatto, stava ancora in gestazione, e il film di Gabriel Range, noto documentarista britannico, ha il compito di rivelarne la genesi. Stardust, infatti, è interamente concentrato a quel periodo del 1971 in cui la futura star andò in tour negli USA sperando di dare una svolta alla sua carriera. Per quanto ancora distante dalla sua mutazione, il ragazzo timido ed eccentrico (interpretato con personalità da Johnny Flynn, anch’egli musicista e cantante) ha già lo sguardo rivolto a un altrove magico che gli altri non riescono a percepire, sintomo di una visione di mondo totalmente altra, quasi ultraterrena, sospesa in un universo che solo lui sa interpretare.
Non è un caso lo vediamo in apertura di film “floating in a most peculiar way” per cantarla con il suo unico hit di allora – l’immortale Space Oddity del 1969 – vestito in tuta spaziale, il volto da alieno, gli occhi bicromici che sembrano extraterrestri. D’altra parte lui era destinato ad appartenere a quelle “stars very different today”, ma nell’estate di quel tour ancora non lo comprendeva. Senza alcun brano di Bowie in colonna sonora (“non abbiamo avuto i diritti dal figlio, il regista Duncan Jones, e poi sarebbero costati troppo”) Gabriel Range ha messo in scena la storia di un giovane uomo dagli atteggiamenti fra il disadattato e l’istrionico che poteva – a tutti gli effetti – essere quella di un qualunque artista in crisi di identità e forse di ispirazione.
A far da contraltare, il suo lato umano emerge profondo e sensibile quando deve occuparsi del fratello mentalmente malato, Terry, che peraltro cantava benissimo e l’aveva parecchio influenzato da piccolo con la sua passione per la musica. Dunque Stardust è solo parzialmente un film su David Bowie, “e certamente non è il biopic che ne descrive la carriera immersa in una compilation di greatest hits come di recente abbiamo avuto modo di vedere nei cinema”, spiega Range, evidentemente alludendo ai vari film su Freddy Mercury ed Elton John. Fosse stato privato del nome “David Bowie”, il racconto sarebbe stato ancor più universale, ma è chiaro che il riferimento al geniale musicista britannico forniva quel valore aggiunto fondamentale, ovvero che anche uno come David Bowie ha avuto le sue crisi profonde, i suoi demoni interiori, ma non ha smarrito il suo Sogno e ce l’ha fatta. “David è riuscito a superare la sua ossessione di ammalarsi di schizofrenia come il fratello ed alcune zie attraverso lo sdoppiamento materiale della sua identità: quando partorisce la maschera di Ziggy Stardust come alterego, libera la persona David da ogni stress, relegando al performer l’ansia trasformata in arte pura, diventando quell’incredibile artista a tutto tondo, autentico animale da palcoscenico che conosciamo”. Va detto come il film non sia completamente riuscito (specie in termini di scrittura), benché di nobili intenzioni, ma in ogni caso resta a colmare quel vuoto sulla vita/carriera di Bowie; uscirà nelle sale italiane prossimamente per I Wonder Pictures.