Lui era ancora lì, in giacca e cravatta, intento a rispondere alle domande dei giornalisti e già la chat whatsapp di classe impazzava di messaggi. “Prof, ma quindi? Domani si entra alle nove? Entriamo alla seconda? Ma dobbiamo giustificare? Ma quindi usciamo alle tre?”.
Io, davvero, sono toccata profondamente da questo affetto nei confronti delle istituzioni dimostrato dai miei alunni. Mi commuove. Sono molto felice che pendano dalle labbra del premier, sono persino gelosa del fatto che a lui basti pronunciare una frase una volta, in mezzo ad un profluvio di coordinate, per essere ascoltato e compreso, mentre quando spiego io che il nome e il cognome vanno scritti in alto a sinistra sul foglio protocollo non ce ne sia uno che sia uno ad afferrare il concetto al primo colpo.
A dire il vero, non mi aspettavo neppure che dei sedicenni fossero lì, davanti al televisore, pronti ad aspettare con pazienza biblica che venisse indovinato il parente misterioso, prima che si materializzasse il presidente decretoso. Me li immaginavo tutti in giro ad assembrarsi senza mascherina, ma tu guarda che vita sociale triste che hanno i miei alunni. Però, ecco, io questo fatto “che l’ingresso non avvenga in ogni caso prima delle 9.00″ l’ho trovato un po’ oscuro. Un breve giro sui siti più autorevoli, dal “daldecretoalvolgareitalianopuntonet”, “misurerestrittiveealtridisagipuntoorg” mi ha rinfrancata sul fatto che anche altri brancolassero nel buio come Scotland Yard.
Intanto, l’obiettivo sarebbe ridurre il traffico di esseri umani che si accalcano sui mezzi per entrare alle 8? Ma perché prima non si sapeva? E se domani, e sottolineo se, davvero si entrasse alle 9 (o alle, 10, o alle 11, perché tanto si puote ciò che si vuole), i ragazzi con cosa dovrebbero arrivarci a scuola? I droni, i tronchi fluviali, le passaporte? Perché se non si potenziano i trasporti io vedo soltanto adolescenti che continuano a prendere il treno o il pullman di prima e poi si assembrano nel bar della stazione in attesa di entrare alle 9.
Ma non è già da un po’ che si è insensibili al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si leva chiedendo, per la miseria, di aumentare le corse? Non è già da un po’ che si dice che a scuola, tutto sommato, si è più sicuri che altrove, tra banchi separati, gel, mascherine e docenti pronti al cazziatone, mentre il problema si pone fuori, quando per tornare a casa ci si ritrova cheek to cheek?
Noi ci eravamo addirittura spinti a chiedere delle classi meno numerose, con l’idea che essere di meno, sui mezzi e poi a scuola, avrebbe contribuito sì a creare un costo ma anche a contenere il problema. Invece, come sempre, è la scuola che ci deve pensare. Ad adattare la didattica, a scaglionare gli ingressi, che però non è che si possano decidere così, pronti via, bisogna coordinarsi un po’. Eravamo appena riusciti a costruire l’orario, incastrando i supplenti che avrebbero dovuto essere tutti in cattedra dal 14 settembre e che invece sono arrivati con una comoda rateizzazione.
La scuola è come quella storia del battito d’ali di una farfalla che può provocare un uragano dall’altra parte del mondo: è fatta di equilibri, va pensata e pianificata, non si improvvisa.
A questo punto, improvvisazione per improvvisazione, mi chiedo una cosa. Ma tutti quegli indispensabili banchi con le rotelle che hanno tenuto banco, ovviamente, per tutta l’estate, non possiamo lasciarli in comodato d’uso agli studenti? Ho certi allievi che sfiorano i 40 all’ora col banco, come col motorino. Così la mattina arrivano a scuola con quelli e alleggeriscono il sistema dei trasporti. Io un pensiero ce lo farei.