Preciso e coraggioso l’articolo di Pietro Mecarozzi che, sul Fatto Quotidiano del 19 ottobre, condensa ed analizza quella serie di fattori ancora poco indagati che concorrono a generare quel fenomeno chiamato “malessere nelle caserme“, che si traduce da un lato nella impressionante cifra di 258 suicidi dal 2014 al 2019, dall’altro in una serie di episodi violenti e vessatori agiti verso la popolazione da parte di appartenenti alle Ffaa.
Mi occupo da diverso tempo della questione, privilegiando l’aspetto puramente clinico, non essendo interno ed organico alla struttura militare. Ho cercato, in alcuni post pubblicati su queste colonne, di delineare per sommi capi le forme più evidenti di disagio psicologico foriere di conseguenze estreme.
Se da un lato l’incidenza del disturbo post traumatico da stress costituisce un nemico subdolo che si scatena sovente dopo azioni militari o di ordine pubblico fortemente traumatizzanti abbattendo ex post uomini e donne sino a quel momento psicologicamente stabili, dall’altro abbiamo a che fare con soggetti strutturalmente più fragili che, forse a causa di una non perfetta selezione clinica al momento dell’arruolamento, si dimostrano incapaci di reggere la quantità abnorme di tensione alla quale sono sottoposti durante le normali mansioni, venendone schiacciati.
Mi sono sforzato di sottolineare non solo necessità assoluta di mettere in atto quei dispositivi che possano prevenire i suicidi e gli atti autolesionisti che avvengono dentro alle caserme, ma al contempo ho ribadito come, alla prova dei fatti, i criteri di ammissione e di periodica valutazione degli aspiranti poliziotti, militari o guardie di Finanza costituiscano quel vulnus evidente che permette a soggetti inadatti alla divisa di esercitare forme di violenza verso terzi, sadismo indiscriminato (si pensi ai fatti di Genova), quando non la creazione di piccole enclave dedite alla violazione sistematica della legge e dei diritti umani come nel caso dei fatti di Piacenza.
Perché le forze dell’ordine, tutte, non sono regolarmente sottoposte ad una vaglio clinico utile a scorgere sin dai primi segnali di cedimento quelle avvisaglie che possono condurre a conseguenze estreme? Perché molte divise scelgono di togliersi la vita non trovando quei punti di appoggio utili a far defluire l’angoscia e la depressione, prima che queste le inghiottano? Perché individui sadici, violenti, con chiare tendenze antisociali e marcate tendenze alla sopraffazione verso quei cittadini che dovrebbero proteggere non vengono fermati prima di indossare la divisa?
Risponde Rachele Magro, responsabile dell’associazione L’Altra Metà della Divisa: “Gli psicologi militari sono a stretto contatto con i comandi delle divisioni e quindi poco affidabili agli occhi di agenti e soldati che temono di essere segnalati e poi sospesi dal servizio”. L’articolo di Mecarozzi coglie il punto nodale quando dice che “Una delle ragioni che induce un rappresentante delle forze dell’ordine a tacere in merito al suo stato di turbamento o depressione è l’articolo 48 del Dpr n. 782 del 1985, che prevede il ritiro del tesserino e dell’arma nel caso in cui un poliziotto necessiti di aiuto psicologico”.
Il vulnus del percorso riabilitativo consiste proprio nella terzietà del punto di ascolto e di sostegno. Avere a che fare con uno psicologo, o psichiatra, per quanto valido esso sia, inserito nella struttura militare, magari un superiore in grado, toglie quelle caratteristiche di distacco ed imparzialità che possono permettere al soggetto in difficoltà di sottoporsi ad un trattamento psicoterapeutico in piena serenità.
Una qualsiasi diagnosi di instabilità mentale, formulata all’interno di un sistema gerarchico, non può che avere ripercussioni sul richiedente, aumentandone lo stigma, facendo prevalere il timore del giudizio e la pressione del grado militare rispetto alla fiducia clinica. Confessare ad un appartenente del medesimo corpo di non essere più in grado di servirlo adeguatamente lascia nella mente del paziente il dubbio che, chiedendo aiuto, si sia al contempo segnalato come non più “funzionale”.
Chiaro l’esempio descritto nell’articolo: “Un medico militare di stanza all’Aeronautica Militare svela al Fatto l’iter che subisce chi denuncia una qualche debolezza emotiva. ‘Esasperato dai comportamenti vessatori dei superiori mi sono rivolto al telefono verde 800 48 29 99 dell’Aeronautica, per denunciare le ritorsioni subìte, lasciando i miei dati e senza nascondersi dietro l’anonimato’, racconta il medico, che adesso preferisce non svelare la sua identità. ‘Il risultato è stato che dopo quella telefonata, registrata, sono stato trasferito senza se e senza ma, proprio perché segnalato al mio comandante'”.
Per questo il Governo deve prendere atto che questi numeri non sono più tollerabili. Deve sapere mettere in campo tutte le risorse utili a creare una rete di aiuto e sostegno diversa rispetto al presente. E’ compito del legislatore prendere atto dell’ammontare non più tollerabile di questi suicidi. La politica deve capire che è necessario aprire a soggetti terzi, come in parte già avviene, non appartenenti al mondo delle forze dell’ordine, che possano garantire ai militari in difficoltà un accesso a cure e trattamenti non velati dal dubbio di andare a rovinarsi la carriera confessando i propri timori suicidari.
Urge pensare a tavoli tematici che mettano al centro della discussione un modo nuovo di approcciarsi alla psiche di chi indossa una divisa, che sia rispettoso delle professionalità esistenti nel mondo militare, ma sia al contempo contaminato da saperi esterni e lontani da gerarchie militari.