“Come giornalista ho seguito centinaia di manifestazioni e quando mi hanno trascinato a terra a manganellate e preso a calci fino a fratturarmi una costola e spappolarmi una mano ero esattamente nel luogo dove si dovrebbe trovare chi fa il mio lavoro”. Stefano Origone esce dal Palazzo di Giustizia di Genova dove è iniziato oggi il processo per appurare le responsabilità dietro al pestaggio subito un anno e mezzo fa: “Ho perso per sempre la funzionalità di una mano e rischiato che mi andasse molto peggio, ora voglio solo che si faccia giustizia e vengano individuati i responsabili”. Il giornalista di Repubblica era stato accerchiato e picchiato dal VI reparto mobile della caserma di Bolzaneto il 23 maggio 2019 a Genova. Quel giorno un migliaio di manifestanti antifascisti si erano riuniti per contestare un comizio del partito di estrema destra CasaPound, la polizia aveva fatto piovere lacrimogeni sulla piazza per dispendere i manifestanti e Origone è stato travolto da una carica e colpito mentre osservava l’arresto di un manifestante e i colpi che stavano raggiungendo una giovane a pochi passi da lui.
“Il giornalista Stefano Origone non aveva ‘segni distintivi’ tipici del giornalista e ed era anche vestito di scuro, difficilmente distinguibile dagli altri manifestanti”. È questa, sostanzialmente, la linea difensiva tenuta dai quattro operatori di polizia imputati di lesioni gravi aggravate dall’uso dell’arma per il pestaggio del giornalista. L’indagine per appurare le responsabilità sono state affidate nei mesi scorsi dal pm Gabriella Dotto alla stessa squadra mobile della Questura di Genova, chiamata a individuare le responsabilità dei colleghi. Così quella che dovrebbe essere l’informativa dell’accusa assume i toni di quella che sembrerebbe a tutti gli effetti una difesa: “Origone si trovava in mezzo a sei-sette manifestanti – si legge nel documento – che stavano cercando di impedire l’arresto di uno di loro”.
Secondo quanto appurato, comunque, il giornalista è stato raggiunto da una manganellata che lo ha fatto cadere a terra e, una volta rannicchiato al suolo, nonostante urlasse di essere un giornalista, per trenta lunghissimi secondi viene accerchiato con con calci e manganellate. Al termine del pestaggio, interrotto solo grazie all’intervento di un funzionario di polizia che lo aveva riconosciuto, Origone subirà lo spappolamento di due dita di una mano, poi sottoposta a molteplici operazioni, la frattura di una costola e diverse contusioni su tutto il corpo. Eppure lo stesso agente che è intervenuto per placare l’accanimento dei colleghi contro Origone, chiamato a testimoniare, non si sarebbe detto in grado di riconoscere chi materialmente ha colpito il giornalista a terra. La prima udienza si è tenuta oggi alle 14 nell’aula di Corte d’Assise del tribunale di Genova e il giudice ha rigettato la richiesta dell’Ordine dei giornalisti e del sindacato FNSI di costituirsi parte civile a fianco del collega di Repubblica con la motivazione che Origone non sarebbe stato picchiato “in quanto” cronista.
Fuori dal Tribunale, per tutta la durata della prima udienza, durante la quale i quattro agenti imputati hanno chiesto e ottenuto il rito abbreviato, si è tenuto un presidio partecipato da una sessantina di giornalisti: “Quello che è accaduto a Stefano poteva accadere a chiunque – spiegano gli organizzatori – Non erano e non sono accettabili le giustificazioni del ‘non sapevamo che era un giornalista’. Se non fosse stato un collega sarebbe stato lecito massacrarlo di botte?”. Tra sfollagente “brandeggiati in aria” e calci che sembrano “andare a vuoto”, per la difesa degli imputati sarebbe impossibile definire con certezza chi abbia “affondato i colpi”. La tesi difensiva argomenta che gli agenti si sarebbero trovati ad agire con brutalità per placare la situazione di disordine pubblico che si era creata. Anche in quella che dovrebbe essere la perizia dell’accusa, redatta dai colleghi degli imputati, quella che ha comportato il pestaggio del giornalista viene definita come una “necessaria azione di alleggerimento da parte dei poliziotti – che non poteva realizzarsi senza un utilizzo ripetuto dello sfollagente (…) in linea con le regole di ingaggio consuetudinariamente ammesse. Va da sè che l’utilizzo dello sfollagente, determina la possibilità di colpire il destinatario”. La tesi della squadra mobile, che è poi la stessa degli imputati, sembrerebbe sostenere che se la carica sia stata legittima e conseguente sarebbero state legittime anche le manganellate. Per questo, stando alla difesa degli imputati, la “non riconoscibilità” del giornalista sarebbe determinante per assolvere chi l’ha accerchiato e picchiato mentre era a terra, in quanto la raffica di manganellate sarebbe una “consuetudine” insita nelle cariche e, per tanto, non punibile se diretta a un “obiettivo che rappresenta un pericolo”, come nel lessico del reparto mobile sono tutti i manifestati ‘ingaggiati’ (puntati e colpiti al fine di trarli in arresto) dagli agenti.
Il processo è stato aggiornato al prossimo 16 dicembre.