di Luisa Loiacono e Leonzio Rizzo (fonte: lavoce.info)
Gli allevamenti di carne bovina e suina contribuiscono all’inquinamento dell’aria. Per ridurre produzione e consumo non serve una nuova imposta, basta agire sulle aliquote Iva. Il gettito aggiuntivo potrebbe finanziare per esempio il taglio del cuneo fiscale
Attività che producono particolato
La qualità dell’aria delle città in cui viviamo interessa sia il benessere dei cittadini sia la tutela ambientale. Pertanto il rilascio di sostanze inquinanti, oltre ad avere un impatto negativo sull’ecosistema, costituisce anche un problema di sanità pubblica.
Una delle maggiori fonti di inquinamento dell’aria ai giorni nostri è la formazione del cosiddetto particolato, meglio conosciuto con il nome di polveri sottili. Il particolato di minori dimensioni, che causa problemi respiratori e circolatori, in Italia è dovuto per il 38% alla combustione nelle case delle caldaie che servono ad alimentare il riscaldamento. La seconda fonte – con il 15% – è rappresentata dagli allevamenti. Qui una parte di rilievo è giocata dal particolato secondario, che si forma con l’emissione di ammoniaca dovuta allo stoccaggio dei liquami. Al terzo posto, con il 14 per cento, ci sono i trasporti che emettono particolato tramite i gas di scarico degli automezzi. L’industria si situa solo al quarto posto, con emissioni di particolato pari all’11 per cento del totale.
Il settore trasporti è già regolamentato tramite i blocchi della circolazione dei veicoli più inquinanti, mentre le emissioni derivanti dalle caldaie sono state ridotte dalle nuove tecnologie indotte dalla normativa europea (direttiva 2009/125/Ce). Per le industrie, il decreto legislativo 152/2006 stabilisce valori limite alle emissioni. Nessuna normativa regola invece la formazione di particolato dovuto all’emissione di ammoniaca negli allevamenti (pari all’83% delle emissioni totali). Secondo Ispra bisognerebbe ricorrere ad “azioni (…) strutturali, come la riduzione dei capi o le opzioni tecnologiche”.
Non serve una nuova imposta
Gli allevamenti producono dunque una cosiddetta esternalità negativa, che i manuali di economia suggeriscono di ridurre attraverso una imposta pigouviana, cioè un’imposta indiretta sull’attività inquinante, che dovrebbe aumentare il costo di produzione e quindi spingere a diminuirne l’entità.
L’introduzione di un’imposta sulla carne da allevamento è in discussione in vari paesi europei, dalla Germania (incremento di Iva) a Paesi Bassi (introduzione di un’accisa specifica), Danimarca e Svezia. Una proposta, che prevede un’imposta del 25 per cento sul consumo, è stata recentemente presentata al Parlamento europeo dal gruppo dei Verdi e Socialisti e Democratici. La nuova imposta si sommerebbe all’Iva già presente in tutti paesi europei.
Ma non c’è bisogno di spingersi fino a un’imposta sul consumo di carne. In Italia, come negli altri paesi Ue, esiste già l’Iva, con aliquote modulabili per tipo di bene. Oggi sulle carni si applica il 10 per cento, un’aliquota molto inferiore a quella ordinaria del 22 per cento. Nel nostro paese si potrebbe dunque pensare a un innalzamento – graduale – dell’aliquota all’interno della logica che prevede di utilizzare una tassazione ambientale per finanziare interventi socialmente desiderabili come la riduzione del cuneo fiscale per i redditi medio-bassi, già prevista dalla Nadef 2020.
La legge prevede infatti che la riduzione “del cuneo fiscale sul lavoro (…) con la revisione del sistema di incentivi ambientali” allineerà “gli obiettivi ambientali e sociali a cui il paese si ispira a livello europeo e internazionale”.
Calcoli sul gettito Iva
Per calcolare il gettito di imposta che deriverebbe dall’aumento dell’aliquota sulla carne dal 10 al 22% utilizziamo come prezzi di riferimento la media dei prezzi al consumo del 40% del totale dei distributori di carni. In particolare, facciamo riferimento ai prezzi di Coop, Conad, Selex ed Esselunga. Il prezzo medio nell’ottobre 2020 della carne bovina è di 12,75 euro al kg, quello della carne suina di 7,75 e quello della carne avicola di 8,12.
Sono prezzi al lordo dell’Iva al 10 per cento. Calcoliamo i prezzi al netto dell’Iva e poi su questi calcoliamo l’Iva al 22 per cento. La differenza tra l’Iva al 22 e l’Iva al 10 per cento permette di ottenere il gettito aggiuntivo dell’aumento dell’aliquota. In particolare, l’attuale Iva al 10 per cento si concretizza in un’imposta pari a 1,16 euro per chilo di bovino, 0,70 per chilo di suino e 0,74 per chilo di avicolo. Se aumentassimo l’Iva al 22 per cento avremmo un’imposta di 2,55 euro al chilo per i bovini, 1,55 euro al chilo per i suini e 1,62 per chilo di avicolo.
Il totale di carne bovina consumata per abitante in Italia nel 2019 è di 17,2 kg. Tenendo conto che la popolazione italiana è pari a poco più di 60 milioni, otteniamo che il nostro paese consuma più di un miliardo di chili di carne bovina all’anno. Il consumo di carne suina si attesta sui 36,8 kg pro-capite, che in totale equivale a 2,2 miliardi di chili all’anno. Il consumo attuale pro-capite di carni rosse si aggira così nel 2019 attorno a 1 kg per settimana (17,2 carne bovina + 36,8 carne suina/52 settimane), più del doppio del consumo raccomandato dall’Inran (Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione). Infine, il consumo di carne avicola è uguale a 20 kg pro capite, per un totale nazionale pari a 1,2 miliardi di chili.
Se nel caso delle carni bovine moltiplichiamo l’incremento di prezzo dovuto alla variazione dell’aliquota Iva (1,39 euro al kg) per il totale dei chilogrammi di carne consumata otteniamo 1,4 miliardi di gettito in più. Se facciamo la stessa operazione per le carni suine, per le quali l’incremento di prezzo dovuto alla variazione di aliquota Iva è pari a 0,85 euro al kg, l’aumento di gettito è di 1,87 miliardi. Infine, per la carne avicola, l’aumento di prezzo dovuto alla variazione Iva è uguale a 0,88 euro al chilo, per un totale di 1,06 miliardi di gettito in più. Sul consumo del 2019 l’operazione darebbe un totale di 4,37 miliardi in più. La stima dovrebbe però diminuire, a causa della flessione della domanda dovuta all’aumento dei prezzi.
L’introduzione dell’imposta genererebbe quindi una diminuzione delle polveri sottili, una contemporanea riduzione dell’Irpef e un aumento dei trasferimenti assistenziali (il cosiddetto doppio dividendo della tassazione ambientale). Quindi, chi modificherà il paniere di spesa a seguito della variazione dei prezzi relativi avrà un guadagno netto: il consumatore, sostituendo il bene consumato, non subisce infatti l’aumento di prezzo e si giova però di una riduzione dell’Irpef o di un incremento dei trasferimenti. Per chi continuerà a consumare la stessa quantità di carne di prima, l’effetto dell’aumento di imposta sulle carni sarà neutralizzato dalla riduzione dell’Irpef o dall’incremento dei trasferimenti.
La misura, in linea con le recenti proposte di sugar tax e carbon tax, va nella direzione più generale che il nostro ordinamento dovrebbe seguire: ridurre la tassazione sul lavoro e aumentare la tassazione indiretta, per indurre comportamenti più virtuosi per l’ambiente e per la salute.