Non avrei scritto un post simile a marzo. Ma d’altronde, a marzo la situazione era radicalmente diversa. E non sto parlando del virus in sé, quanto del rapporto tra noi e il virus, tra gli italiani e il virus. Il Covid-19 ci era arrivato addosso all’improvviso. Quasi tutti gli italiani, dunque, hanno subito capito che si trattata di un’emergenza che nessuno poteva prevenire. Di conseguenza, hanno anche accettato le misure, drastiche e drammatiche, che il governo ha preso, fino alla chiusura totale. Non solo. Si è creata una sorta di solidarietà collettiva, unita a un nazionalismo nuovo, nato dalla crisi, che per molto tempo ha reso la chiusura quasi un valore. Gli italiani sono riusciti, con i loro canti, con la loro ironia, a trasformare un incubo in qualcosa di accettabile.

Purtroppo, la situazione di oggi appare opposta. E, non, di nuovo, rispetto alla presenza del virus, quanto al nostro rapporto con esso. Abbiamo passato un’estate dove molti errori sono stati fatti. Da entrambe le parti: dalle persone, che ingenuamente (e stupidamente) hanno creduto che tutto fosse passato e hanno perso ogni minima prudenza. Parlo di chi ha partecipato a maxifeste e eventi collettivi come matrimoni senza pensare minimamente che uscivamo da un periodo in cui non avevamo abbastanza bare per seppellire i nostri morti. Ma la responsabilità più grande ce l’hanno avuta le istituzioni, in particolare le Regioni. Che in primo luogo, a mio avviso, forse per rilanciare l’economia non non si sono minimamente preparate alla seconda ondata. Che hanno deciso di investire molti soldi in cose forse non necessarie, come i banchi a rotelle, invece che in sistemi di tracciamento stringente di cui ora abbiamo disperatamente bisogno.

Ora ci troviamo di fronte alla seconda ondata, improvvisa e feroce. Ma le persone non solo sono molto meno disponibili a sacrifici, ma sono molto più impaurite di prima, e anche esasperate. E’ come per una malattia grave: la prima crisi si supera in qualche modo, la ricaduta getta nello sconforto. Ma non c’è solo esasperazione. C’è anche rabbia, e tanta. E in parte a ragione. La situazione attuale è questa: le Regioni, in particolare, chiedono chiusure di ogni tipo. Spaventate dei numeri, invocano lockdown un giorno sì e l’altro pure, spalleggiati dai virologi allarmati che sono certo competenti in materia di virus, ma non in quella di esasperazione sociale.

Dall’altra parte c’è la gente, i genitori, le famiglie, le imprese anche. Che si sono rimesse in carreggiata con fatica, che hanno mandato i propri figli a scuola con la mascherina, che hanno riaperto un’attività investendo moltissimo in sanificazione e protocolli di sicurezza. E che cosa vedono queste persone? Che se c’è un positivo in classe si apre un incubo vero, fatto di asl che non rispondono, oppure che rispondono e poi spariscono, per giorni e giorni. Fatto di confusione e nulla, fatto di mancate risposte, mancata assistenza. Vedono che si fanno pochi tamponi rispetto a quelli che servirebbero mentre tutti gridano a chiudere tutto di nuovo, vedono che si invoca lo stop dello sport ai propri bambini e la chiusura delle proprie imprese, strutture senza che nessuno spieghi loro esattamente perché si prendano misure che potrebbero essere diverse da nord a sud e che dovrebbero differenziare chi rispetta le regole e chi no.

L’ultimo Dpcm del governo sul virus è stato un compromesso equilibrato, non si può negare. Difficilissimo d’altronde deve essere governare ora e soprattutto cercare un bilanciamento, forse impossibile, tra salute e tenuta dell’economia. E tuttavia io credo che in questo momento si sia rialzata l’attenzione del virus ma non quella verso la tenuta sociale e direi anche la tenuta psicologica delle persone. Che rischia la coesione sociale, senza che nessuno se ne preoccupi. Così un De Luca qualsiasi può chiudere dalla mattina alla sera la scuola andando contro il governo e gettando nella vera disperazione decine di migliaia di famiglie, che in sono state colpite soprattutto dalla violenza di questa misura, oltre che dalle conseguenze pratiche.

Così Conte può minacciare le strutture sportive di chiusura generalizzata, entro sette giorni, senza capire che una struttura che rispetta le regole non può essere trattata come chi le rispetta. Così il Comitato Tecnico scientifico, dove non c’è nessuno che abbia competenze sociali e pedagogiche, quali servirebbero nel caso di misure che vanno a incidere pesantemente sulle persone e sui bambini, può pressare il governo fino all’impossibile chiedendo di “chiudere, chiudere, chiudere”.

L’effetto sulle persone, ripeto, è massacrante. Così è a rischio la coesione morale delle persone, che vengono spinte verso le destre e i negazionisti. Un disastro. Sarebbe fondamentale invece che virologi di ogni tipo smettessero di dire la loro a ogni minuto e che i giornali smettessero di fare titoli sulla sortita di turno. Sarebbe fondamentale che il governo adottasse una comunicazione unica. Sarebbe fondamentale che le istituzioni, tutte, il governo, le Regioni, i Comuni spiegassero cosa hanno fatto e perché non hanno fatto ciò che invece serviva, se hanno una spiegazione. Altrimenti passassero la palla ad altri.

Il vero scaricabarile non è dal governo sui Comuni, come hanno scritto in molti, ma quello delle istituzioni sulle persone. Colpevolizzate di non fare abbastanza, quando stanno facendo abbastanza. Minacciate di chiusure che colpiscono le loro vite, i loro figli, la loro vita e le loro entrate senza che nessuno gli abbia spiegato perché siamo passati dall’incubo di marzo, alla spensieratezza (istituzionale anche) dell’estate, al dramma di oggi. Le persone chiedono spiegazioni. Vogliono ragioni. Non accettano più misure arbitrarie calate dall’alto in nome dell’emergenza. Quell’emergenza non basta più a giustificare misure draconiane, lockdown di ogni tipo. Non ci saranno altre bandiere e cori in cortile ma questa volta manifestazioni e rischi di disobbedienza civile (e incivile) e atti di violenza. Tutto questo va tenuto presente. Perché è importante esattamente come i numeri che crescono.

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