di Matteo Maria Macrì
Sono un medico specializzando in anestesia e rianimazione in uno dei capoluoghi più importanti del nord Italia. Premetto che questo non vuole essere il solito sfogo dei medici “eroi” in cerca di riconoscimento, ma piuttosto un grido di allarme per una situazione che è in continuo peggioramento da anni e rischia di danneggiare gravemente tutti.
Per comprendere meglio quanto sto per dire, bisogna partire dal principio della carriera di un medico. Terminato il corso di studio in medicina si aprono tre strade:
1) Vinci tramite concorso nazionale una borsa di studio e inizi un percorso di 4-5 anni di specializzazione in ospedale, per poi lavorare nel Ssn.
2) Vinci il concorso di medicina generale e inizi il triennio di formazione relativo.
3) Non riesci ad ottenere nessuna delle due borse, per cui rimani tagliato fuori dalla formazione specialistica e lavori con la sola laurea come medico di continuità assistenziale (Mca) o sostituto di medicina generale.
Fatta questa premessa, in questi giorni mi squilla il telefono: è un amico che lavora come rianimatore in un noto ospedale di Milano. Lo sento affranto, demoralizzato, triste. Mi dice che aveva intrapreso questo percorso con passione, dedizione e convinzione. Ma adesso non è più sereno. Non è più felice. Si domanda per quale assurdo motivo si sia preso questo fardello sulle spalle.
Mi racconta della sua ultima notte in rianimazione, da solo con 10 pazienti, in cui è stato 12 ore a lavorare senza riposo per cercare di tenere in vita persone che probabilmente non ce la faranno. L’ambiente della terapia intensiva, avendo in carico solo pazienti critici, è un luogo molto pesante, dove ogni singola decisione ha un peso specifico enorme, le competenze richieste sono vastissime e l’assistenza al singolo paziente è la più elevata che si possa immaginare. Non da ultimo è un ambiente piuttosto competitivo, non troppo adatto agli animi gentili.
Squilla di nuovo il telefono, è un altro amico, lui lavora come Mca. Percepisco la sua serenità, mentre ci raccontiamo come vanno le nostre vite. Mi dice che sta bene e il lavoro non va affatto male, si sente gratificato e sereno, ma soprattutto è soddisfatto dal reddito che il suo lavoro gli garantisce, che è tre volte superiore alla borsa percepita da uno specializzando e due volte superiore allo stipendio di un medico assunto dal sistema sanitario nazionale.
Tutto questo mi porta a fare una riflessione: attualmente nel nostro paese, lavorare nel sistema pubblico ospedaliero è talmente sconveniente da risultare eroico. L’esodo di massa che stiamo osservando dagli ospedali pubblici verso il privato o verso qualunque altro luogo di lavoro al di fuori dell’ospedale appare più che motivato e sarà sempre maggiore se non si prenderanno delle misure adeguate.
Oggi l’unica motivazione che spinge ad iniziare un percorso lungo e duro come la specializzazione (nelle branche che hanno sbocco solo nel pubblico) è un’ostinata e ferma dedizione verso il prossimo, la cosiddetta vocazione, che però purtroppo non dura in eterno, ma lascia presto spazio alla desolazione, al rimorso e alla profonda sensazione di ingiustizia. Quando lavori troppo la vita intorno a te si sgretola, perché dedichi troppe ore e troppe energie vitali all’ospedale. In tutto questo sei sottopagato e a malapena puoi permetterti di sopravvivere in una città come Milano.
Un tempo lavorare in ospedale garantiva ad un medico o infermiere uno stile di vita più sano, una maggiore gratificazione personale e un reddito adeguato. Se si vuole preservare il sistema sanitario nazionale, bisogna iniziare a prendersi cura di chi ci lavora, adeguare gli stipendi alle competenze e alle responsabilità e garantire un orario lavorativo giusto. Mettiamo fine a questa guerra tra poveri che avvantaggia sempre chi sfrutta.
Finché sarà più conveniente fare meno e avere di più, non ci sarà giustizia sociale né benessere collettivo e, ancora una volta, avremo perso tutti.