“Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Era il 22 ottobre 1978 quando San Giovanni Paolo II pronunciò queste storiche parole. La messa dell’inizio del pontificato del Papa polacco venuto dall’altra parte della cortina di ferro annunciò la fine dei regimi totalitari nella vecchia Europa. Parole profetiche quelle di Wojtyla appena salito sul soglio di Pietro: “Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!”.
Da qui una cavalcata di successi straordinari e impensabili sullo scacchiere mondiale: dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, al viaggio nella Cuba di Fidel Castro nel 1998, fino al Grande Giubileo del 2000 e al passaggio dal secondo al terzo millennio cristiano. La grandezza morale, pastorale e politica di Wojtyla, che la Chiesa ha proclamato santo nel 2014, è il motivo per cui da più parti, credenti e non, hanno chiesto che egli sia definito “magno” come è avvenuto per pochissimi suoi predecessori.
Rileggendo la sua biografia scritta da Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, intitolata Giovanni Paolo II santo (San Paolo), si ha davvero la percezione dell’irripetibilità di quelle pagine che hanno segnato la fine del secolo dei totalitarismi, ma purtroppo non delle ostilità armate tra i popoli.
“Uomo del Novecento – scrive Riccardi – Giovanni Paolo II non ha smesso di interrogarsi sul mondo che stava sorgendo”. E aggiunge: “Papa Wojtyla ha avuto un effetto di liberazione dalle paure, dai condizionamenti, dal senso di decadenza. Ha rilanciato il suo popolo in un nuovo scenario, quello del XXI secolo. Anche per il papato, la sua è stata una guida d’eccezione, molto personale e carismatica. Un Mosè della Chiesa? Difficile è far rientrare una biografia così complessa e contemporanea nel quadro di un’antica figura biblica, che però ha un grande fascino evocativo”.
Per Riccardi, “la personalità di Wojtyla, fuori dall’ordinario, ha lasciato un’impronta storica di grande rilievo, ha supplito alle mancanze delle istituzioni e delle persone: forse non è un modello ripetibile nei pontificati successivi. Benedetto XVI e Francesco, in maniera diversa, lo mostrano. Eppure Giovanni Paolo II resta un grande personaggio della storia. Per la Chiesa cattolica e i suoi fedeli, è un santo”.
Wojtyla è stato sicuramente il Papa dell’immagine. Per questo motivo, i fotografi dei Pontefici Giancarlo e Alessia Giuliani hanno realizzato una mostra con i loro scatti più significativi dei 27 anni del pontificato di San Giovanni Paolo II. Evento voluto nel centenario della nascita del Papa polacco a Roma, nella Galleria Arte Poli, a due passi da piazza San Pietro.
Giancarlo Giuliani, classe 1938, ha fotografato ben cinque Papi, da San Giovanni XXIII a Benedetto XVI, e quattro conclavi. Il suo sterminato archivio fotografico costituisce una ricchissima “cronaca per immagini” di oltre cinquanta anni di storia della Chiesa. In una conversazione con San Giovanni Paolo II nell’estate del 1987 a Lorenzago di Cadore, il Papa gli disse: “La fotografia è un’arte, soprattutto quando è fatta con il cuore”. Nelle sue immagini traspare sicuramente la passione del fotografo, ma soprattutto si evince l’anima di Wojtyla.
Quell’anima che il mondo ha sentito ancora più vicina a sé quando la sofferenza ha preso il comando del corpo del Papa polacco. Una sofferenza, a dire la verità, che ha dominato l’arco di tutto il suo lungo pontificato: dall’attentato nel 1981, ai ripetuti ricoveri al Policlinico Gemelli di Roma, fino all’inesorabile avanzare del Parkinson che lo ha lentamente reso immobile e poi gli ha tolto perfino la voce.
Ma da quella cattedra della sofferenza, San Giovanni Paolo II ha saputo continuare a insegnare con la testimonianza della sua vita e del suo dolore. La morte, infatti, era entrata subito nel cuore di quel bambino polacco che a soli nove anni perse l’amatissima mamma. Da lì fu un calvario di sofferenze: prima con la scomparsa del fratello medico Edmund e poi con quella del padre. Rimasto solo, Wojtyla decise di entrare in seminario e da lì ha scalato tutte le tappe fino al papato al quale fu eletto ad appena 58 anni.
La sofferenza seguita all’attentato è racchiusa in un documento prezioso e spesso trascurato tra i tanti del lungo pontificato, la lettera apostolica Salvifici doloris, scritta nel 1984, tre anni dopo i colpi di Alì Agca. Ed è molto significativo l’incipit di questo documento: “Completo nella mia carne, dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza, quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa”.
E aggiunge: “Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo ed illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’apostolo scrive: ‘Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi’. La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, ed una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L’apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare, così come aiutò lui, a penetrare il senso salvifico della sofferenza”.