di Carlo Schettino
Se guardiamo i dati di consumo del vino nel mondo, i numeri confermano due dinamiche essenziali:
1) i vini più scambiati, bevuti e conosciuti al mondo sono quelli che provengono da uve di origine francese (Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Grigio, etc etc);
2) negli ultimi 30 anni i vini italiani venduti nel mondo iniziano a contare vitigni come la Passerina, la Glera, esistenti solo in Italia.
I motori dello sviluppo dell’Industria del vino Italiano sono quello quantitativo, che attiene ai grandi produttori e che si basa sulla produzione di quantità a basso prezzo di vitigni internazionali, attuando strategie di tipo classicamente di costo, per raggiungere la leadership; e quello qualitativo, che si basa sulla strategia di differenziazione, praticata dai piccoli produttori Italiani, il cui scopo è creare nicchie inimitabili e di alto valore aggiunto difendibile nel lungo termine a prezzi più alti.
Malgrado i dati sembrino dare ragione ai grandi produttori, alcuni segnali mostrano che sia proprio la seconda la strada più giusta, tra cui il più evidente è che anche i francesi stiano lavorando sulla valorizzazione di vitigni indigeni (imitando loro noi per una volta) con lo studio e la selezione clonale per un deciso aumento della base produttiva in termini qualitativi. Come mai?
La risposta è articolata ma semplice da comprendere. La cosiddetta “globalizzazione” del vino si riferisce al modello francese, cioè lo sviluppo di produzioni legate ai loro vitigni principali. Questo processo è avvenuto per 3 ragioni specifiche di cui la prima è storica, legata allo sviluppo degli imperi britannico e francese; la seconda, agricola, ne è diretta conseguenza, lo sviluppo delle loro rispettive Colonie e la terza, scientifica, legata alla mole enorme di conoscenza che in 300 anni quasi si è sviluppata sui vitigni francesi, ha generato enormità produttive dominate, però, da una competizione oggi globale, il cui valore complessivo è enorme ma non unitariamente.
A parte cioè le eccezionalità estreme e comprensibile di una numerosa pattuglia di altissimo valore ed esclusivamente francese, generalmente, i prezzi internazionali di trasferimento dei vini da vitigno “francese” variano sui mercati, dato il livello comparabile di qualità, da poco meno di 1 €/lt fino a circa 4-5€/lt. Le produzioni autoctone, invece partono da prezzi all’origine più alti (3,00 – 5,00 Usd/lt) e si posizionano verso l’alto nelle catene distributive, per l’apprezzamento qualitativo, e perché rappresenta il Made in Italy dell’enoturismo alla scoperta dell’Italia che vale oltre i 13 miliardi di euro.
In un mondo siffatto, la scelta vincente per il futuro è quindi quella dell’autoctono e della sua difesa e valorizzazione. Oltre alla potenzialità, occorre guardare anche alla sostenibilità e alla capacità di sviluppo dell’indotto che in territori ad alta produzione di cibi e specialità agroalimentari autoctone forniscono al sistema turistico e di consumo, oltre alle ragioni di natura storico artistiche che completano un’offerta unica al mondo.
E’ il caso di invertire la tendenza e proteggere la varietà non solo nel territorio del prodotto a denominazione d’origine, ma in tutto il mondo registrandone o brevettandone (se necessario) il patrimonio genetico, figlio della specializzazione adattiva territoriale, per impedirne la diffusione altrove. A differenza dei nostri cugini, quindi, evitare la diffusione dei nostri vitigni in altre aree del pianeta (come invece purtroppo già avviene per il Sangiovese, il Nero d’Avola, il Primitivo) che divenuti vini di successo mondiale non possano essere copiati altrove.
I primi oppositori a tale possibile scelta saranno certo i vivaisti, cioè coloro che sono specializzati nella selezione clonale a scopo riproduttivo e che detengono una enorme quantità del patrimonio genetico del Vigneto Italia, ma che potrebbero invece aiutare l’inversione di tendenza verso un’estensione delle produzioni autoctone in Italia, preservando il loro mercato.