Molti troveranno stravagante (se non peggio) che, fra le tante difficoltà che occorre affrontare per contrastare gli effetti della pandemia di Covid-19, ci sia chi propone di impegnarsi nella ripresa di un tema, quello delle riforme scolastiche, che sembra diventato del tutto marginale.

Non che non si parli delle misure da introdurre nelle scuole e nelle università per superare la crisi, anzi non passa giorno senza che ci si occupi delle misure di sicurezza, dell’organizzazione degli spazi, delle condizioni di lavoro del personale. E, ovviamente, si fa riferimento alle soluzioni didattiche da introdurre quando non siano praticabili quelle consuete, aprendo terreni conflittuali che il più delle volte si esauriscono in contrapposizioni che riguardano il modo di comunicare il messaggio di istruzione.

C’è una frattura, fra gli insegnanti, ma anche fra i genitori e gli altri soggetti interessati al funzionamento del sistema di istruzione, fra chi ritiene che non si possa prescindere dalla interazione diretta fra insegnanti e allievi, e considera imprescindibile che l’apprendimento sia ulteriormente sostenuto dai libri di testo, e chi pensa che i nuovi sistemi di comunicazione possano validamente sostituire l’interazione diretta con quella mediata (che ora si designa generalmente con l’espressione “didattica a distanza“).

A partire dal XIX secolo, l’interazione mediata ha finito con l’identificarsi con le soluzioni tecniche di volta in volta disponibili per comunicare il messaggio di istruzione. Un primo grande sviluppo, nel corso dell’800, ha seguito il potenziamento dei sistemi di trasporto e la diffusione del servizio postale (fondamentale è stata l’introduzione dei francobolli come mezzo di pagamento): l’istruzione che si avvaleva delle nuove opportunità era detta “per corrispondenza”.

Nel Novecento c’è stata una rapida crescita dell’istruzione per corrispondenza, cui si sono cominciate ad aggiungere soluzioni che facevano ricorso a nuove tecnologie: dapprima la radio, successivamente la televisione, infine i sistemi digitali.

In linea di massima, l’evoluzione che è stata rapidamente delineata ha riguardato buona parte dei paesi di cultura europea, nel nostro continente e altrove. Non è stato così in Italia, dove si è radicata una profonda diffidenza verso forme di interazione alternative a quella diretta. Quella diffidenza è sembrata improvvisamente dissolversi verso la fine dello scorso inverno, quando è sembrato che l’istruzione a distanza potesse validamente sostituire quella che supponeva una relazione diretta degli allievi con gli insegnanti.

Non starò a considerare, nell’ambito di questa riflessione, se ciò che si supponeva si è realizzato: interessa invece osservare che per istruzione a distanza si è intesa la semplice trasposizione su supporti digitali di soluzioni didattiche proprie della tradizione scolastica. In altre parole, chi pensava che ci si trovasse di fronte ad un cambiamento nelle interpretazioni e nelle pratiche educative non ha potuto trarre argomenti di conferma.

L’equivoco nel quale molti sono scivolati è dipeso dal far coincidere una riforma didattica con lo strumentario necessario per attuarla. Non si è compreso che una riforma suppone che cambino in profondità uno o più elementi costitutivi dell’educazione, a cominciare dalle scelte culturali e dalle finalità sociali.

Se si considera in che modo si sono costituiti i sistemi educativi nella seconda metà del passato millennio, troviamo che la spinta originaria è stata di due tipi: la prima tendeva ad attuare il principio, sancito dalla Riforma di Lutero, del libero esame, l’altra ha accompagnato le trasformazioni economiche, il progresso scientifico, i cambiamenti politici. Le riforme hanno accompagnato mutamenti sociali non di contorno, ma strutturali.

Da un punto di vista educativo, ciò non ha significato solo la revisione di procedure o dello strumentario didattico, ma – per tornare al primo degli esempi menzionati, quello dell’attuazione del libero esame – l’affermazione della necessità per tutti i cristiani di saper leggere.

Quelli che stanno caratterizzando in questi mesi l’attività delle scuole sono cambiamenti dipendenti, mentre per segnare l’avvio di una riforma dovrebbero essere indipendenti. Le pratiche educative sono cambiate non perché sia stata avvertita l’esigenza di rivedere concezioni e abitudini solidificate nel tempo, e di compiere scelte culturali che configurassero una cultura di base la cui validità potesse estendersi per un lungo tratto della vita, ma per l’impossibilità contingente di conservare principi e comportamenti cristallizzati nel tempo.

I provvedimenti che nel corso del 2020 hanno riguardato la scuola sono simulazioni più o meno riuscite di aspetti già presenti nel panorama tradizionale. Sono stati (con le dovute eccezioni) espressione rassegnata di un sistema educativo che non riflette sui suoi fondamenti, ma si limita a rincorrere come può il manifestarsi di nuove esigenze.

Per quanto in un contesto drammatico, è stato necessario uscire dal consueto e orientare il funzionamento del sistema in altre direzioni. Raramente le condizioni di funzionamento della scuola sono state così difficili. Ma in condizioni di estrema difficoltà è possibile che emergano aspetti di struttura che solitamente risultano sommersi. Per l’educazione si potrebbe stabilire un’analogia con la struttura del linguaggio, che Roman Jakobson ha definito a partire dalla condizione limite dell’afasia.

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