Francesco tira dritto. L’accordo con Pechino è stato prolungato per altri due anni. L’oggetto dell’intesa riguarda la nomina dei vescovi, ma la sua importanza in questo particolare momento investe la scena geopolitica. La pesante interferenza del segretario di Stato americano Mike Pompeo – attuata nelle settimane scorse con l’intento propagandistico di additare il dialogo con la Cina avviato da Bergoglio come una svendita della libertà di religione dei cattolici cinesi – ha contribuito a fare ulteriore chiarezza sulla strategia dell’amministrazione Trump: intimare il veto al rinnovo dell’accordo con l’intento di coinvolgere la Santa Sede nella nuova guerra fredda contro Pechino lanciata dagli Stati Uniti.

E’ esattamente quello che Francesco non vuole. Così come Giovanni Paolo II, dopo la fine dell’Urss, era fermamente contrario a etichettare l’Islam come nuovo “nemico” mondiale (ed infatti Wojtyla non era d’accordo con l’invasione dell’Afghanistan e si è battuto con tutti gli strumenti della diplomazia contro l’invasione dell’Irak da parte dell’America di George W.Bush) allo stesso modo il pontefice argentino è contrario ad arruolare il Vaticano e la Chiesa cattolica nella guerra propagandistica ed economica che Trump ha scatenato contro Pechino.

Il Vaticano non condivide praticamente nulla della linea di politica internazionale dell’amministrazione Trump, in special modo delle picconate sistematiche condotte contro l’architettura degli accordi multilaterali. Il ritiro degli Usa dall’accordo sul Clima, dall’accordo con l’Iran, dagli accordi di limitazione e controllo delle armi nucleari con la Russia, il ritiro dall’Unesco, dalla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite, la carta bianca concessa al governo Netanyahu per ulteriori annessioni dei territori palestinesi, compresa la metà araba di Gerusalemme, sono tutte iniziative che trovano la Santa Sede sulla sponda opposta.

Meno che mai – specialmente in questo momento di drammatica pandemia universale – il Vaticano concorda con la minaccia di Trump di ritirare gli Usa dall’Organizzazione mondiale della sanità e con le sue rozze accuse riferite al “virus cinese”.

Un gelido silenzio vaticano ha accompagnato nei mesi scorsi le parole del cardinale birmano Charles Bo, quando ha dichiarato che “il regime del Partito comunista cinese è il primo responsabile” della diffusione del coronavirus, sostenendo che “ciò che ha fatto e ciò che non ha fatto sta producendo danni alle vite in tutto il mondo”.

Francesco non ignora gli iniziali silenzi di Pechino sul manifestarsi della pandemia, non ignora la repressione attuata contro il medico cinese che per primo lanciò l’allarme, non ignora i problemi economici e strategici che la Cina pone alla comunità internazionale, non ignora il carattere autoritario dello Stato cinese, ma è convinto che la strada per affrontare i problemi non passi per un’isterica chiamata alle armi contro il paese di Xi Jinping.

La diplomazia vaticana ha la memoria lunga. La guerra fredda con l’Urss, ricordano nel palazzo apostolico, fu superata non attraverso sanzioni o aggressioni militari ma attraverso un instancabile lavoro di negoziati e di cooperazione multilaterale, di cui fu momento fondamentale l’Atto di Helsinki firmato nel 1975, a conclusione delle trattative della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea.

Se, come disse anni fa Henry Kissinger in Vaticano durante una sessione dell’Accademia pontificia delle scienze, il problema millenario della Cina è stato il suo isolamento e la sua incapacità storica di concepirsi come parte di un “concerto delle potenze” (alla stregua degli stati europei dell’era moderna), allora la soluzione sta proprio nel coinvolgerla sempre più in una rete di accordi multilaterali, idonei anche ad alimentare una cultura liberaldemocratica delle relazioni.

Quanto all’accordo sui vescovi, che rimane tuttora segreto, nessuno si nasconde che sia un patto leonino in cui Pechino è predominante. La Cina ha rifiutato persino il vecchio metodo dei paesi dell’area sovietica per cui il pontefice sceglieva una terna di candidati e i governi comunisti avevano diritto di veto.

L’accordo prevede che sia la conferenza episcopale cinese a indicare il candidato (ed è un processo largamente influenzato dalle autorità cinesi) e il papa ha solamente la facoltà di respingere la candidatura per motivi strettamente morali o religiosi. Inoltre il governo di Pechino ha proibito l’istruzione religiosa dei giovani sotto i 18 anni e qualsiasi altra attività educativa per i minorenni.

Ciò nonostante Francesco ritiene che sia stato importante, come primo passo, agganciare la Cina in un dialogo strutturato e permanente, Non ci sono più ordinazioni episcopali illegittime. Tre vescovi “non ufficiali” a suo tempo nominati da Roma sono stati riconosciuti da Pechino. Due nuovi vescovi sono stati scelti secondo la nuova procedura. D’altronde, come ha ricordato Francesco, c’è stato un tempo nella storia europea in cui erano i re a scegliere i vescovi. Si tratta di procedere con pazienza e con tenacia.

Nel pieno della pandemia del Covid-19 il Vaticano guarda anche al ruolo di Pechino per una iniziativa di estrema importanza. India e Sudafrica hanno chiesto all’Organizzazione mondiale della sanità di applicare una clausola, che in “casi di eccezionale gravità” renderebbe possibile sospendere la proprietà intellettuale (ed economica) dei brevetti relativi a medicinali essenziali. Significherebbe poter produrre a prezzi accessibili il vaccino anti-coronavirus per tutte le nazioni del mondo.

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