Nella narrazione sportiva spesso ci si trova di fronte ad una dicotomia, una guerra filosofica tra narratori: da un lato quelli che si servono dei numeri per esprimere un concetto; dall’altro, quelli che pongono gli atleti sullo stesso piano di semidei, generali o addirittura opere artistiche, sottolineando anche il loro ruolo sociale. Una sorta di prolungamento dell’eterna sfida tra scientifici e umanisti: razionalità contro anarchia, sempre sportivamente parlando.
C’è stato un calciatore, però, che nella sua carriera è riuscito a raccogliere i primi e i secondi in un unico coro, alimentando le ragioni degli uni e degli altri. Il valore di Pelé lo si trova negli scintillanti numeri della sua carriera: quelli dei gol (oltre 1000, anche se è un numero ormai debunkato: ma rimangono i 77 gol con la maglia del Brasile, i 12 gol nei campionati Mondiali, e tanti altri) e quelli degli innumerevoli record, sia di precocità che assoluti. Per rimanere ai principali: più giovane di sempre a giocare (e segnare) in una finale mondiale; unico giocatore ad aver vinto tre volte il Mondiale.
Ma Il Numero, al singolare, di Pelé, è anche il 10: indossato casualmente da lui per la prima volta nel Mondiale del 1958 in Svezia (gli fu assegnato random da un impiegato FIFA), dopo la sua straordinaria prestazione internazionale divenne lo status symbol dei fuoriclasse assoluti.
La benedizione scientifica di Pelé deriva anche dal suo vero nome: Edson è un tributo all’inventore della lampadina, Thomas Alva Edison. D’altronde il ruolo di Pelé è stato proprio quello di accendere la luce in una nazione oscurata dall’oblio del Maracanazo: 8 anni di depressione nazionale spazzata via dal ragazzino che a 9 anni, vedendo il padre distrutto dalla rete di Ghiggia, gli promise che avrebbe portato a casa la scintillante Coppa Rimet.
Ma Pelé è stato anche un genio calcistico, amato a tutte le latitudini: inventò il drible de vaca – pallone da una parte, giocatore dall’altra – era contemporaneamente 9 e 10, marcatore e rifinitore; fu dichiarato Tesoro nazionale nel 1961 dal presidente del Brasile, che non permise che andasse a giocare all’estero (fu richiestissimo in Italia, in particolare dal Milan).
Al termine della carriera assunse anche diversi ruoli di ambasciatore a difesa di ecologia e ambiente, tutelando l’importanza dell’acqua, un bene dato sempre troppo per scontato. Per tre anni fu anche ministro straordinario dello Sport in Brasile, combattendo la corruzione nel mondo del calcio. Un uomo dalle mille risorse, che si tolse anche la soddisfazione di recitare in Fuga per la Vittoria, film ispirato alla Partita della morte, una gara tra detenuti ucraini e gerarchi nazisti a Kiev durante la seconda guerra mondiale, sospesa tra realtà e leggenda.
Oggi sono 80: auguri, O Rei.