di Roberto Iannuzzi *
Il processo di normalizzazione dei rapporti fra Israele e alcune monarchie arabe del Golfo prosegue, ma non porterà ad alcuna reale stabilizzazione del Medio Oriente. Domenica scorsa una delegazione israeliana giunta a Manama, capitale del Bahrein, ha firmato otto accordi bilaterali che, fra l’altro, instaurano normali rapporti diplomatici fra i due paesi. Il giorno dopo, una delegazione degli Emirati Arabi Uniti (Eau) è atterrata a Tel Aviv per discutere i passi concreti di un’analoga normalizzazione.
Tali eventi sono conseguenza della firma dei cosiddetti “Accordi di Abramo” (patriarca comune a ebrei ed arabi, e profeta sia per l’ebraismo che per l’Islam) da parte dei ministri degli esteri dei due paesi arabi e del premier israeliano Benjamin Netanyahu, lo scorso 15 settembre a Washington. E’ stato detto che si tratterebbe del terzo e quarto paese arabo che firmano un accordo di pace con Israele, dopo Egitto (nel 1979) e Giordania (nel 1994), anche se Uae e Bahrein non sono mai stati in guerra con lo Stato ebraico e hanno da tempo sviluppato relazioni segrete con esso.
Il fine ultimo della Casa Bianca, che ha fortemente promosso questa svolta, sarebbe quello di giungere a un trattato di pace fra Israele e Arabia Saudita, paese leader dell’Islam sunnita. Un passo intermedio potrebbe essere rappresentato da un analogo accordo fra Israele e Sudan, stretto alleato delle summenzionate monarchie del Golfo. L’amministrazione Trump ha appena annunciato di voler rimuovere Khartoum dalla lista degli Stati sostenitori del terrorismo in cambio del pagamento, da parte di quest’ultima, di 335 milioni di dollari come risarcimento per le vittime degli attacchi terroristici del 1998 alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania.
Né gli accordi recentemente formalizzati né un’eventuale futura – e non scontata – intesa fra Tel Aviv e Riyadh, tuttavia, affrontano le vere cause dei conflitti mediorientali. Gli sconvolgimenti popolari degli ultimi anni, talora sfociati in vere e proprie guerre regionali, sono frutto della repressione e dell’ingiustizia sociale alimentate dai regimi arabi, alcuni dei quali traggono ora ulteriore legittimazione agli occhi dell’Occidente a seguito di questi accordi. Il riavvicinamento con Israele è peraltro promosso dalle élite politiche, economiche e intellettuali di questi regimi, ma non è fatto proprio dalle rispettive popolazioni, che continuano a considerare la Palestina come una questione araba piuttosto che esclusivamente palestinese.
Un rafforzamento della cooperazione nei settori dell’intelligence e della cyber security fra Tel Aviv e tali regimi, che implica una maggiore capacità di questi ultimi di controllare i propri cittadini, potrebbe ulteriormente rafforzare i sentimenti anti-israeliani a livello delle masse arabe.
La normalizzazione tra Israele e alcune monarchie del Golfo, inoltre, non fa che cementare il fronte regionale anti-iraniano proprio mentre le tensioni con Teheran sono molto alte, a causa del durissimo embargo imposto alla Repubblica islamica dagli Usa a seguito della decisione unilaterale di Trump di uscire dall’accordo nucleare stipulato nel 2015. Le ramificazioni di tale contrapposizione vanno dallo Yemen alla Palestina, passando per Libano, Siria e Iraq, paesi che rappresentano altrettanti potenziali teatri di scontro nell’eventualità di un conflitto armato con Teheran.
Gli “Accordi di Abramo” alterano anche le dinamiche palestinesi. Pur avendo scongiurato l’ufficializzazione dell’annessione israeliana di parte della Cisgiordania, essi rappresentano di fatto un ripudio dell’Iniziativa di pace araba del 2002, che era fondata sul principio “terra in cambio di pace”, ovvero sulla normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani a seguito della nascita di uno Stato palestinese. Tali accordi sono perciò stati accolti come un tradimento dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Anche perché gli aiuti arabi a Ramallah, in gran parte provenienti dalle monarchie del Golfo, sono crollati dell’85%, passando dai 267 milioni di dollari dello scorso anno ad appena 38 milioni.
Un’Anp politicamente sempre più delegittimata, ed economicamente sull’orlo del collasso, ha perciò pensato di avviare colloqui di riconciliazione con Hamas, fazione eternamente rivale che controlla la Striscia di Gaza ed è finanziariamente sostenuta dal Qatar, per arrivare allo svolgimento di elezioni palestinesi e ad un eventuale accordo di condivisione del potere. Tali negoziati si sono tenuti a Beirut, Damasco, e infine a Istanbul sotto il patrocinio del presidente turco Erdogan.
Finora simili colloqui sono sempre falliti, ma il punto rilevante è che un’ascesa dell’influenza turco-qatarina in Palestina potrebbe ulteriormente complicare il quadro regionale, tenendo conto che tale asse si è scontrato con Uae, Arabia Saudita ed Egitto in un conflitto intra-sunnita che, dopo le rivolte arabe del 2011, è dilagato dalla Siria alla Libia. Senza dimenticare l’Iran, altro sostenitore storico di Hamas.
Gli “Accordi di Abramo”, dunque, rimescolano le carte mediorientali senza allentare le tensioni. Il risultato delle imminenti presidenziali americane sarà un elemento chiave per comprendere in che direzione evolveranno gli eventi nella regione.
* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)