di Paolo Di Falco e Marta De Vivo
Una scuola media francese come tante altre è stata testimone della decapitazione del prof. Samuel Paty, un professore di storia la cui unica colpa è stata quella di mostrare ai suoi studenti le vignette del giornale satirico francese Charlie Hebdo e di parlare della libertà di stampa. Una semplice lezione di un grande valore morale, che però gli è costata la vita. A togliergli la vita è stato un ragazzo di appena 18 anni, poi ucciso dalla polizia in un conflitto a fuoco, che prima di morire aveva postato una foto sui social, orgoglioso della sua azione.
Un episodio che oltre a lasciarci senza parole ci fa vedere in parallelo due vite: da una parte quella di un professore, caduto sul lavoro per la sua professione e per quello che amava fare, insegnare. Dall’altra invece quella di un ragazzo che potrebbe essere stato un suo studente, un ragazzo che, secondo le fonti a disposizione ancora non definitive, avrebbe subito una radicalizzazione precoce.
Tanto si è detto in questi giorni sul prof. Paty e anche la Francia si è fermata per rendergli omaggio. Emmanuel Macron ha detto che “incarnava la Repubblica, che rinasce ogni giorno nelle classi, la libertà che si trasmette e si perpetua nelle scuole” e che “Samuel Paty venerdì è diventato il volto della Repubblica francese”. In questo post però ci vorremmo soffermare sull’aggressore, su quel ragazzo che si è avvicinato all’Islam estremo probabilmente adescato da qualcuno. In Francia, come nel resto d’Europa, sono troppi i ragazzi che scelgono di morire da martiri, troppi che scelgono la via della morte anziché della cultura.
Si parla sempre di questi episodi che però implicitamente sono conseguenza di un’integrazione mancata: in genere i ragazzi coinvolti si trovano nelle periferie di cui lo Stato ha smesso di occuparsi da tempo. Ragazzi che spesso sono oggetto di discriminazioni anche a scuola, ragazzi che spesso non capiscono l’importanza della cultura e che non hanno nessuno che sia in grado di coinvolgerli o ascoltarli come faceva il prof. Paty. Ragazzi di cui dovremmo iniziare a parlare e su cui dovremmo riporre molta più attenzione se non vogliamo lasciarli in balia degli estremisti.
Ma ora parliamo di numeri: il 5-10% della popolazione nazionale in Francia è a prevalenza musulmana, la più alta percentuale in tutta l’Europa occidentale. Nel 2016 la percentuale di bambini francesi con nomi musulmani era del 18,8% come media nazionale e del 25-40% nelle aree più metropolitane quali Parigi e Lione: proprio queste nuove generazioni sono quelle sempre più tendenti al fondamentalismo islamico.
Molti ragazzi musulmani al di sotto dei 25 anni sostengono che non sia l’Islam a doversi adattare ai valori della Repubblica ma il contrario, che sia la Repubblica a doversi piegare al loro credo: secondo un sondaggio, pubblicato un paio di anni fa, il 27% dei ragazzi musulmani under 25 riteneva che la sharia (la legge coranica) dovesse prevalere sulle leggi della Repubblica.
Per via di questo sentimento di fondamentalismo islamico crescente, molti professori avrebbero addirittura paura di spiegare a scuola la Shoah, per timore di essere aggrediti dagli studenti, così come alcuni maestri della scuola primaria non riuscirebbero più a reggere le continue richieste di bambini scalpitanti che, già dalla più tenera età, desiderano spiegazioni su come Allah abbia creato il mondo e tutti noi.
La demografia parla chiaro: fra un paio di anni la popolazione dell’area europea sarà a prevalenza musulmana. Dobbiamo agire ora con un piano di integrazione che sia di ampio respiro, non un piano forzato che costringa i ragazzi a fare loro dei costumi e dei modi di fare che non sentono loro adatti, bensì un progetto dinamico, che li accompagni nell’inserimento scolastico e in quelle che sono le leggi e i principi sui quali si regge una cultura laica e libera.
Un inserimento naturale e spontaneo che sorga da un’unica prerogativa: la volontà di stare bene assieme. L’atto eroico del professore che voleva insegnare la libertà ci insegna una lezione di vita molto importante: la vita è lotta e lottare vuol dire anche avere coraggio di credere nel sogno europeo. Avere la forza di dire: “Io non ci sto, sono europeo e mi batterò fino all’ultimo per preservare la libertà di pensare e di credere e di essere”.
Essere, una parola abusata, dalla declinazione greca del verbo εἰµί “io sono”; dobbiamo tutti avere il coraggio e la forza di essere, anche se delle volte questo comporta lottare. La lotta per la libertà, l’amore per le nostre radici, per tutto quello in cui crediamo, che abbiamo conquistato e che dobbiamo preservare, parte da noi: dalle nostre case, dai nostri uffici, dalle nostre aule e impensabile ma vero, anche dalle nostre chat.
Sembra incredibile pensare che il fuoco della giustizia e dell’amore della libertà di pensiero inizi proprio così, da un banco, da una penna, da una parola. Eppure il sogno europeo, più in generale il sogno di un mondo più giusto, equo, vero, è partito così: dalle aule, dalle scrivanie, dalle piazze, dai sorrisi e dal sudore di donne e uomini che ci hanno creduto, forse con l’unico peccato di averci creduto così tanto da aver perso persino la vita.