di Mattia Zàccaro Garau

Cotiledone è una parola strana. Tecnicamente viene dal greco, dal cotyle – e significa scodella. Ma è una parola botanica. È la prima foglietta, la minuscola padelletta che sta già dentro il seme – tutta ripiegata su se stessa, in forma embrionale. Ed è la prima cosa che spunta da terra. Solitamente tondeggiante, pienotta, grassoccia. Completamente diversa da tutte le altre foglie che la pianta produrrà in seguito – per consistenza e forma. Ma soprattutto per funzione.

Di solito infatti, il cotiledone non è altro che una riserva di energia. Serve a tenere nutrita la pianta che sta per nascere e che ha bisogno di aiuto per sostentarsi. Se volessimo fare un corrispettivo simbolico con l’essere umano – il cotiledone sarebbe il cordone ombelicale. Nel caso delle piante, un cordone invisibile. È come se la pianta-madre lasciasse, attaccato al neonato, un fagotto di provviste. Un fustino di latte – per essere più esemplificativi.

Nel frattempo la piantina nuova allunga le radici (inizia a camminare, se vogliamo continuare questo paragone con noi umani) e tira fuori le primissime foglie vere e proprie (comincia ad allungare le mani verso il frigo, diciamo). A quel punto impara a effettuare la fotosintesi e prende a nutrirsi in maniera autonoma. Senza più bisogno di cotiledoni. Che infatti cadono.

Ma l’effetto dell’affetto genitoriale, comunque, non si ferma. Anzi spesso è proprio determinante l’azione protettiva delle piante più grandi, che schermano le neonate dai picchi degli agenti atmosferici. Troppo sole, o gelo, o pioggia – sono mitigati dall’effetto a mantello delle piante più resistenti. Un po’ come quando continui a pranzare dai tuoi, a portare loro i panni sporchi, anche se vivi da solo.

Ovviamente abbiamo forzato i termini, le similitudini. Abbiamo applicato categorie umane a cose che umane non sono. Ma abbiamo tentato solo per essere il più possibile comprensibili e trattare un argomento complesso. Più antropologici – senza essere antropocentrici. Lo scopo era porre il punto su una questione più ampia che va al di là dei cotiledoni.

Molti avranno reminiscenze liceali di Aristotele. Lo Stagirita divideva l’anima in tre tipologie – ognuna con funzioni differenti. Gerarchicamente: anima vegetativa, sensitiva e intellettiva. Per esemplificare al massimo: le piante hanno solo la prima, gli animali la prima e la seconda, gli umani tutte e tre. In buona sostanza le piante hanno solo l’anima adatta per nascere e crescere, gli animali anche quella per muoversi nello spazio, noi umani anche quella per ragionare.

Ecco: forse Aristotele pur essendo stato determinante per lo sviluppo del pensiero occidentale, su questo ci ha traviato. Sulla sua scia, infatti, il trend secolare della filosofia antropocentrica ci insegna che all’uomo appartiene l’ordine dell’intelligenza senziente e a tutto il resto solo l’istinto. Ad oggi però sta avvenendo un ribaltamento di prospettiva – sia per quanto riguarda il significato di Istinto sia per ciò che concerne l’Anima. Molti studi, rimanendo nella botanica, confutano le tesi aristoteliche. Le piante anche si muovono, e parecchio!, e paiono capaci di ragionamenti specifici. Ma questo è un argomento troppo vasto per essere trattato qui.

Il punto è un altro. La base della società è formata dall’insieme delle azioni di riconoscimento dell’altro come simile a noi. Le discriminazioni nascono quando, invece di simile, lo riconosciamo non solo diverso – ma peggiore o meno importante. Invece, come per tutto ciò che è in pericolo dobbiamo sforzarci di riconoscere l’altro come un in-più e non un di-più. E questo vale per le minoranze sociali come per qualsiasi altro segmento di mondo sotto minaccia.

Per le piante, ovviamente, questo processo è molto più complesso – essendoci di mezzo la gerarchia aristotelica. Eppure è l’unico che ci può spronare a fermarci nella indefessa distruzione del nostro habitat che stiamo portando avanti. Le lotte, soprattutto quelle ambientaliste, dovrebbero partire da qui.

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Foto di congerdesign da Pixabay

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