Di suo, non ce n’era nemmeno uno. Eppure tutta la casa era sommersa dal bianco aggraziato dei centrini. Ogni mobile, ogni superficie, sopra la televisione e sui braccioli del divano; qualunque cosa insomma potesse reggerne simmetricamente il peso era adatto, per lei forse addirittura pensato, per accogliere un centrino. Doveva sicuramente piacerle la simmetria: da come erano disposti i mobili di casa sua, due portoni sopra quella dei miei genitori, lo si capiva.
Ma non era solo quello. Un giorno mia madre le aveva chiesto di quella ostentata – ma non le disse di certo così – passione per l’uncinetto e la risposta della signora Anna, settantenne o magari ottantenne vicina di casa, l’aveva spiazzata: “Mi ricordano mia madre”. A me sembrò una risposta gracile ma ostinata come una foglia in autunno: una donna anziana, vedova, spesso sola, che sullo sciogliersi della propria esistenza continuava a omaggiare il fantasma di sua madre, figura che il resto del mondo aveva certamente scartato, come milioni di altre, nel rincorrersi delle generazioni.
Della signora Anna non ricordo molto ancora. Da piccolo ero entrato qualche volta in casa sua ma poi mai più. Ogni tanto, andando a trovare i miei, la incrociavo sul portone, o al balcone, e le dicevo buonasera ma senza enfasi, con voce monotona, ossequioso solo di quella conoscenza che durava da quando ero nato ma di cui non avevo molta memoria, né altri motivi. Un’anziana molto distinta, molto sola.
Ci misero due giorni a capire che se n’era andata. Suo figlio, l’unico, fa l’infermiere. A marzo, quando come un segnalibro il virus ha segnato l’ultima pagina di normalità, lui ha smesso di andarla a trovare. Allontanarsi per proteggere, che paradosso. Però, quando usciva a prendere aria fuori dalle corsie sature d’angoscia, le telefonava: “Mamma, com’è?”. Lo faceva una volta al giorno, a meno che l’ora non fosse troppo tarda. È per questo che sul necrologio non sapevano che data scrivere accanto alla foto della signora Anna: era morta il giorno che suo figlio non poté chiamarla o l’indomani, quando le telefonò ma non rispose?
La mia amica Roberta mi disse solo che la trovarono raggomitolata per terra, annodata come uno dei suoi centrini, scivolata giù dalla sua poltrona, con il volume della tv alto e uno schioccare sciocco di applausi finti. Non morì né di Covid che con Covid, come si diceva in quei giorni, ma fu comunque il coronavirus a scucirla silenziosamente da questo mondo senza un funerale, un saluto, una mano dentro la sua.
Ora che abbiamo ricominciato a misurare ansiosamente la curva, contiamo i morti e quasi ci tranquillizziamo: ‘non è come a marzo’. Come se ci fosse qualcosa di rassicurante in decine di famiglie che ogni giorno piangono lutto. E dimentichiamo che se quel numero è ancora basso è per merito degli infermieri già senza tempo per le loro famiglie, degli anziani isolati per tutelarsi da un mondo che non lo fa abbastanza. Dimentichiamo di tutte le altre malattie che cedono la precedenza alla pandemia, dimentichiamo che la mascherina va indossata non tanto per noi, che siamo invincibili, ma per chi amiamo. Dimentichiamo della signora Anna, e di tutti quelli che sono andati via senza la pace di un funerale. Il problema è che noi dimentichiamo.