Nel momento peggiore della pandemia – con la curva dei contagi che non dà segni di cedimento, con il picco dei nuovi casi in 24 ore che si aggiorna un altro po’ e sfiora i 20mila e il numero dei morti che tocca di nuovo il numero impressionante dei 151 in un giorno solo – governo e Regioni tornano a parlarsi in due lingue diverse, inconciliabili. Nel momento in cui tutto brucia, pochi giorni dopo l’ultimo appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che una volta di più aveva spiegato che fuori da questa storia tragica si esce solo insieme e “insieme” per le istituzioni vuol dire venendosi incontro, il governo mette sul tavolo una bozza di Dpcm che stringe necessariamente i margini per cercare di frenare la corsa verticale del dato dei contagiati e le Regioni ribattono abbattendone i pilastri principali. Il governo propone di chiudere bar e ristoranti alle 18 e l’intera domenica e le Regioni scrivono che al massimo nei feriali vanno fatti chiudere alle 23. Il governo non vuol chiudere le scuole, vuole limitare il ricorso alle lezioni a distanza, mentre invece le Regioni scalpitano. Il presidente della Campania Vincenzo De Luca lo dice dritto: lasciamo i locali aperti fino alle 23 e piuttosto facciamo il cento per cento di didattica da casa per alleggerire i trasporti. E ancora: il governo propone di lasciare aperti i confini tra Regioni solo per i soliti motivi di necessità (lavoro, salute), ma le Regioni rispondono che tanto i confini non sono controllabili e tanto vale lasciarli aperti. Infine le Regioni propongono di non rincorrere nemmeno più il tracciamento, di limitarlo solo ai sintomatici e ai rispettivi familiari, di non cercare più i positivi tra gli asintomatici che peraltro, come noto, pur essendo tali, sono fattori ugualmente validi di trasferimento del virus. Una proposta che si traduce con la parola rinuncia o anche sconfitta: una delle “ti” che ci hanno fatto mandare a memoria, il tracciamento (che dovrebbe andare a braccetto di tamponi e trattamento), cade come un calcinaccio tra le macerie.

E’ tutto in questo braccio di ferro durato per tutto il pomeriggio del sabato che sta il rinvio della firma del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul suo nuovo decreto. Così della bozza uscita intorno all’ora di pranzo ci si chiede cosa rimarrà. L’obiettivo è chiaro: salvare il Natale (per questo il Dpcm durerebbe fino al 24 novembre) con due direttrici principali. La prima: non ci sarà un lockdown nazionale e vanno garantiti scuola e lavoro, tutto il resto può dunque essere sacrificato. Per questo nella bozza finiscono i bar e i ristoranti, i cinema e i teatri (che ufficialmente sembrano avere numeri di contagio bassissimi), i grandi centri commerciali, il ritorno a zero spettatori allo stadio. La seconda direttrice è che occorre fare presto: “Le prossime settimane si preannunciano complesse, non potremo abbassare la guardia, perché se non proteggiamo la salute dei cittadini non proteggiamo l’economia”. Stringere un po’ i denti, e anche i cordoni della borsa, per poi non finire nel baratro a dicembre.

Il lavoro di tessitura del capo del governo ha un coefficiente di difficoltà ancora più alto. Rispetto all’emergenza di primavera, vacilla non solo l’unità nazionale a livello nazionale, ma anche l’unità della maggioranza e del governo. E l’eco di Napoli arriva bene fino a Palazzo Chigi. Il crinale su cui cammina in queste ore il presidente del Consiglio è strettissimo. Dalle opposizioni è già cominciata la rumba su un governo “che massacra interi settori” (Meloni) e che deve “proteggere dal virus i più deboli, senza massacrare tutti gli italiani” (Salvini). Poi ci sono le varie sensibilità nella maggioranza: Italia viva finora si è detta contraria anche al coprifuoco, la sua capogruppo a Montecitorio Maria Elena Boschi manda a dire che “il governo deve spiegare le ragioni tecniche per cui ritiene di dover chiudere senza cercare altre soluzioni e soprattutto dovrebbe quantificare le risorse che verrebbero messe a disposizione per i ristori e in che tempi”; Pd e Leu – che esprime non a caso il ministro della Salute – forti del “ve l’avevamo detto” spingono per misure severe per salvare il Natale, il M5s ha una posizione più guardinga ma è pronto a un nuovo intervento, chiedendo però a Conte “tempi certi per i ristori” e un intervento energico sui trasporti (delega che com’è noto è gestita da una ministra del Pd, Paola De Micheli). Per questo nella notte Conte ha riunito di nuovo i capidelegazione Dario Franceschini, Alfonso Bonafede, Roberto Speranza e Teresa Bellanova.

Poi c’è la Conferenza delle Regioni che è quella che ha più leve da muovere, condividendo la competenza sulla sanità insieme al governo centrale. Il gruppo dei governatori sembra risentire della consolidata maggioranza di rappresentanti del centrodestra. Così arriva da Luca Zaia la proposta di non tamponare più gli asintomatici, subito sottoscritta da tutti. “Al fine di rendere sostenibile il lavoro delle Asl/Regioni in tempo di emergenza riducendo il carico di lavoro dovuto alle difficoltà nel contact tracing – è scritto nelle osservazioni inviate dalle Regioni a Palazzo Chigi – si dovrebbe destinare i tamponi (molecolari o antigenici) solo ai sintomatici e ai contatti stretti (familiari e conviventi) su valutazione dei Dipartimenti di prevenzione e si dovrebbe riservare la telefonata giornaliera per i soggetti in isolamento o quarantena a specifici casi su valutazione dell’operatore di sanità pubblica“. E in effetti se già davvero la telefonata arrivasse almeno a chi è in isolamento o in quarantena sarebbe un vero trionfo rispetto a quello che accade ancora adesso in moltissime Regioni.

Poi c’è la scuola. Il governo ha proposto lezioni a distanza al 75 per cento per le scuole superiori e per le università, ma alle Regioni non basta: vogliono il cento per cento. In realtà si potrebbe dire alcune Regioni visto che nel pomeriggio il governatore toscano Eugenio Giani si accontentava di “almeno il 50 per cento”. Qualche altro collega, però, dev’essere un po’ più in difficoltà. In Abruzzo, per esempio, è stato lo stesso Cts regionale a chiedere al presidente Marco Marsilio di lasciare a casa tutti gli studenti delle superiori. C’è chi confessa, però, che il sacrificio per le scuole è l’altro piatto di una bilancia in cui si trovano anche bar e ristoranti: è “improponibile” dice il governatore campano chiuderli alle 18. Solo 24 ore prima il presidente della Campania aveva chiesto al governo un lockdown nazionale e ne aveva annunciato uno regionale. Tutto rimangiato.

Le Regioni vogliono bloccare lo stop alle cene: far chiudere i ristoranti almeno alle 23 e i bar almeno alle 20, ovviamente tutti con servizio al tavolo. Ma nella lettera delle Regioni non manca niente. Al quarto punto c’è perfino la difesa dei comprensori sciistici nonostante le scene viste a Cervinia con decine di persone ammassate dentro le cabine della funivia mentre ancora deve spegnersi il rumore delle polemiche sugli affollamenti su autobus e metro per andare a lavorare e a scuola. Mentre la Conferenza delle Regioni chiede al governo anche di “valutare le chiusure relative a: palestre, piscine, centri sportivi, cinema, teatri etc., anche valutando i dati epidemiologici di riferimento”. Sarebbe interessato ai lettori anche capire come le Regioni hanno intenzione di frenare la corsa dei contagi tra i loro cittadini, ma purtroppo nella lettera della Conferenza delle Regioni questo non c’è.

Su una cosa sono tutti d’accordo: bisogna fare presto con i ristori per le attività commerciali che dovranno essere chiuse. Lo dice il premier, lo dicono i partiti di governo, lo dicono le opposizioni, lo dicono le Regioni. Sembra che non ci sia un motivo perché questo non possa accadere.

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