A scriverlo è la gup del Tribunale di Torino nelle motivazioni della sentenza del processo Geenna. Tra i condannati c'è Bruno Nirta, 63 anni di San Luca, considerato il coordinatore della locale di Aosta che esercitava il controllo del territorio "anche attraverso l’inserimento e la partecipazione alla politica locale mediante condotte finalizzate a procacciare voti per determinati candidati a varie elezioni amministrative". A partire dal 2015, quando furono eletti Marco Sorbara e Nicola Prettico (entrambi condannati in un altro filone del processo)
La locale di ‘ndrangheta di Aosta aveva un obiettivo criminoso ben preciso: prendere il potere politico in Regione. È questo in sintesi quello che scrive il gup del Tribunale di Torino, Alessandra Danieli, nelle motivazioni della sentenza del processo Geenna: il 17 luglio scorso sono stati condannati a 32 anni di carcere in totale Bruno Nirta, Marco Fabrizio e Roberto Alex di Donato e Francesco Mammoliti. I quattro presunti mafiosi sono in carcere dal blitz dei Carabinieri del Reparto operativo scattato nella notte del 23 gennaio 2019, a seguito delle indagini della Dda di Torino, e sono stati giudicati con rito abbreviato. Bruno Nirta, 63 anni di San Luca, era il coordinatore, Marco Fabrizio di Donato, 51 anni di Aosta era il capo della locale, suo fratello Roberto Alex Di Donato, 43 anni di Aosta, il suo braccio destro, mentre Francesco Mammoliti, 49 anni di Saint Vincent, si occupava della logistica.
Il gruppo “si valeva della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento di omertà che ne deriva per commettere delitti, e per acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione “di attività economiche” necessarie per “procurare voti in occasioni delle elezioni comunali di Aosta del 2015″, scrive la giudice. I cavalli su cui la locale aveva puntato sono Marco Sorbara (condannato a 10 anni nel secondo filone del processo Geenna del 16 settembre) e Nicola Prettico, condannato a 11 anni. “Il controllo del territorio esercitato dall’associazione mafiosa di matrice ndranghetista insediatisi in Valle d’Aosta – continua – si è manifestato, infatti, anche attraverso l’inserimento e la partecipazione alla politica locale mediante condotte finalizzate a procacciare voti per determinati candidati a varie elezioni amministrative in un’ottica di restituzione di vantaggi diretti e indiretti”. Quali? Ad esempio l’aggiudicazione di appalti pubblici o aiuti e privilegi di vario genere, come “l’ottenimento di posti di lavoro, facilitazioni nella soluzione di questioni amministrative, nonché l’assegnazione di sussidi e di immobili di edilizia residenziale pubblica“.
La strategia è stata collaudata alle elezioni del 2015, in particolare nei comuni di Aosta e Saint Pierre (sciolto per mafia nel febbraio 2020) – quando vennero eletti gli assessori Marco Sorbara e Monica Carcea, entrambi condannati per concorso esterno in associazione mafiosa – e poi messa in atto anche alle Regionali del 2018. Lo schema era sempre lo stesso: procacciare voti per diversi candidati, in modo da favorire ditte e società legate o vicine all’organizzazione mafiosa, al fine di ottenere lavori pubblici e aiuti ai singoli cittadini valdostani che si sarebbero mostrati fedeli al sodalizio. E visto che nella piccola Regione si vota con una legge elettorale proporzionale, i 30mila voti gestiti dal clan non venivano investiti in un solo partito dato per vincente, ma distribuiti a vari politici appartenenti a più schieramenti. Ovviamente la prima scelta era quella degli autonomisti, tra le quali l’Union Valdotaine, la Stella Alpina, l’Union Valdotaine Progressiste e Pour Notre Vallée, in quanto tra i partiti più quotati per la formazione di governo.
Per la locale, sottolinea la giudice nelle 894 pagine delle motivazioni, era meglio puntare su candidati di “scarsa esperienza”, e non su politici valdostani affermati, perché quelli appena approdati sulla scena politica erano ritenuti meglio gestibili e più manovrabili una volta eletti. Per gli inquirenti, assumono un ruolo di vero e proprio manifesto dell’infiltrazione le parole di Marco Fabrizio Di Donato, intercettato il 4 marzo 2016 nella cucina di casa sua: “Pinco pallino che se ne fotte l’importante è che portiamo il numero… anzi ti dico una cosa… più è sconosciuto… più gli dimostri… portato”. Una frase che il gup traduce così: “Se il candidato che il sodalizio ha scelto di appoggiare è sconosciuto”, più facile risulterà “dimostrare il numero di voti a lui procurati” e, di conseguenza, “rendere conto al politico dell’appoggio promesso e del relativo risultato”. Nelle carte si cita il caso del consigliere comunale Prettico, eletto nel 2015 alle comunali di Aosta nella lista dell’Union Valdotaine: la locale sarebbe andata oltre la semplice vicinanza, facendo eleggere un affiliato. Prettico è stato condannato il 16 settembre scorso dal Tribunale di Aosta a 11 anni di reclusione. I giudici attribuiscono poi ruolo centrale nella tessitura dei rapporti tra la locale ed esponenti politici valdostani al ristoratore Antonino Raso, detto “Tonino”, condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso a 13 anni di carcere, e titolare della famosa pizzeria “La Rotonda”. Nella nota pizzeria si incontravano molti politici, imprenditori ed esponenti della locale, e si decideva il futuro politico della Valle d’Aosta.