Era nel vero Martin Heidegger, allorché distingueva tra un’umanità già franata e una non ancora franata, perché ancora resistente, anche solo a livello di immaginario, alla violenza dell’uniformazione tecnocapitalistica. Quello che stiamo vivendo, e a cui i più si sono già piegati con una resa colma di gratitudine (franando nel senso heideggeriano), non è un “grande reset”, come taluni lo appellano. È, au contraire, un “prolungamento organico” (Gramsci) della civiltà capitalistica, che si ristruttura autoritariamente in modo verticistica e consolida alcune sue nuove acquisizioni, tra cui la società digitalizzata dello smart working e del superamento delle democrazie parlamentari.

Una svolta autoritaria, come da tempo sostengo, che affiora limpidamente dalle misure di blocco totale, o lockdown che dir si voglia, e dalle norme autoritarie che, in nome del contenimento della diffusione del virus, proibiscono le manifestazioni pubbliche in generale e, in particolare, quelle di massa e di protesta, nonché i convegni e le assemblee, in una parola gli spazi di elaborazione di idee critiche e di eventuale contestazione dell’ordine dominante.

Basterebbe andare a cercare sul dizionario la parola lockdown per avere una più chiara visione del quadro che si sta delineando: “Punizione – dice il dizionario – che consiste nel confinare un detenuto nella sua cella, senza lasciarlo uscire per l’ora d’aria”. Che genere di società è quella che si struttura secondo l’alternanza di lockdown generalizzati e brevi periodi (mensili o settimanali) concessi per l’ora d’aria? I cittadini sono sostituiti dai detenuti, i quali subiscono un potere poliziesco (oltre che medico e tecnico) che trasforma la società, da luogo delle libere relazioni, in carcere permanente, in spazio del controllo totale sopra la pelle e sotto la pelle.

Già questo basterebbe, in fondo, a favorire un “grande rifiuto”, una protesta corale di massa contro la società asociale del distanziamento sociale e del lockdown. E invece regna una calma piatta, come se gli ergastolani amassero la loro cella perché impauriti di ciò che sta fuori, subito abbinato, con magnetico riflesso, al virus, al contagio, all’insicurezza generale. In ciò, ovviamente, una parte fondamentale è svolta dalle usuali sinistre postmoderne liberal-libertarie e dalle brigate fucsia dell’antifascismo: le quali liquideranno come fascisti non i governi oligarchici e repressivi, che ormai apertamente parlano un lessico marziale degno del Ventennio (“guerra al virus”, “nemico invisibile”, “bollettini”, “sacrifici per combattere il virus”), bensì coloro che a questi ultimi osino opporsi rivendicando libertà, diritti e Costituzione.

Nel mondo rovesciato che stiamo vivendo, gli aguzzini sono benefattori e i dissidenti rispetto al regime sono pericolosi sovversivi, “negazionisti” come ormai la neolingua egemonica li appella. Il lockdown e il “divieto di assembramento” (che trapassa senza soluzione di continuità in “divieto di assemblea”) sono i due pilastri del nuovo sistema di controllo oligarchico e neopadronale ai danni di masse ritenute ridondanti e superflue: il distanziamento sociale è il fulcro – non mi stancherò di ripeterlo – della nuova organizzazione sociale verticistica, del nuovo capitalismo terapeutico e della nuova società padronale.

Il virus, la cui esistenza solo pittoreschi gruppi folklorici mettono realmente in discussione (svolgendo il ruolo di utili idioti che il potere non smetterà di usare per delegittimare il dissenso), c’è ed è utilizzato dal potere tecnocapitalistico come fondamento di una riorganizzazione autoritaria degli assetti sociali, politici ed economici. È una riorganizzazione autoritaria, come dicevo, ma anche un passaggio a una nuova fase del capitalismo: un passaggio che, come “prolungamento organico” più che come “grande reset”, è gestito in modo verticistico mediante la diade letale di terrore e superstizione, non certo mediante il consenso popolare e le elezioni democratiche.

È, sotto un certo profilo, il grande assalto finale ai diritti costituzionali e alla politica parlamentare. È, ancora, il transito decisivo a un nuovo modello, in cui capitalismo e democrazia, già da tempo in tensione nell’evo dell’expertise liberista, si separano completamente: e cedono il passo ai comitati tecnici di esperti (banchieri e top manager) e al decisionismo tutto fuorché democratico dei Dpcm e dell’esecutivo forte.

Quello che sta emergendo, con nitidi contorni, è un capitalismo autoritario e terrifico, pandemico-sanitario: governa mediante il terrore e l’emergenza, inducendo le masse impaurite ad accettare le decisioni drastiche e non democratiche come sola ancora di salvezza per mettere al sicuro il bios. In nome del contenimento del virus e della sicurezza sanitaria, legittima l’esproprio di democrazia e di diritti, nonché la sempre crescente violazione dello spirito e della lettera della carta costituzionale.

Che l’emergenza non sia sic et simpliciter un’emergenza, ma un puntuale e strutturato metodo di governo affiora, oltretutto, da questo: la linea rigorosa di distanziamento, quarantene, lockdown, tracciamento doveva essere temporanea, doveva durare al massimo – era marzo 2020 – qualche settimana. Ma già l’abbiamo obliato e abbiamo ormai appreso a convivere con l’emergenza e con le misure connesse, come se fosse già, di fatto, la nuova normalità, il new normal.

In ciò appare preziosa, più di ogni altra, la lezione di Foucault e, dopo di lui, di Agamben. L’emergenza – occorre ribadirlo ad nauseam – è un metodo di governo. E se riesce a mutare l’inammissibile in inevitabile, lo fa perché lo presenta come limitato nel tempo, come valido per il breve periodo della crisi. Il non detto, ovviamente, sta nel fatto che la crisi non finirà tendenzialmente mai e, con essa, l’inammissibile mutato in inevitabile.

L’emergenza, come se non bastasse, rende ai più invisibile la reale natura autoritaria che il potere assume: esercito per strada, coprifuoco, divieto di pubblica assemblea sono tutte misure che, senza la narrativa dell’emergenza, basterebbero a identificare un regime autoritario in senso pieno e che invece, complice l’emergenza, appaiono benemeriti provvedimenti protettivi e a fin di bene.

Misure che limitano la libertà per garantire la sicurezza sono, così, accettate, quando non invocate, dal gregge umano impaurito dallo storytelling gestito da quello stesso potere che instilla il bisogno di sicurezza e poi provvede a soddisfarlo. Da quel potere, cioè, che urla a reti unificati all’emergenza e che, nel mentre, esibisce i modi per porvi rimedio: modi che – dal lockdown al divieto di assembramento – vanno tutti nella direzione di una svolta autoritaria.

“La salute viene prima anche della democrazia”, si lasciano talvolta scappare, in rari impeti di parrhesia, i giornalisti e i medici, con ciò rendendo palese il funzionamento del dispositivo securitario-emergenziale. Il logo medico svolge qui, ancora una volta, la sua parte essenziale: i provvedimenti di politica autoritaria appaiono obiettivamente e scientificamente motivati, per ragioni extrapolitiche, se a formularne l’esigenza sono i medici. Chi li contesta è trattato come un negazionista incompetente e non come un ribelle che si batte per libertà e Costituzione. Chi li attua è, per parte sua, trattato come un benemerito esecutore delle prescrizioni scientifiche dei medici e non come un politico che ha optato per la via dell’autoritarismo e del regime protettivo.

La scienza medica può, certamente, suggerirci che le strisce pedonali possono favorire lesioni da attraversamento; che il fumo nuoce alla salute e al sistema sanitario nazionale; o, ancora, che la guida in auto può cagionare certi traumi a sé e agli altri. Ma spetta alla politica intervenire per contemperare il bisogno di attraversamento pedonale e il rispetto della vita dei pedoni, di libertà individuale (fumare) e di tutela del sistema sanitario, di utilizzo dell’auto e di libertà di movimento.

Un sistema che, in nome della protezione assoluta, vietasse l’attraversamento pedonale o la guida dell’auto o – ed è il caso – di uscire di casa con la regola del lockdown sarebbe autoritario, come sempre accade – questo il punto – quando entra in giuoco il mito della protezione assoluta. Esso è proprio del Leviatano più che della democrazia, dacché prevede che il cittadino, per definizione, non sia libero, ma sia, appunto, un “detenuto”, sorvegliato sempre e amministrato in ogni modo.

La risposta del direttore Peter Gomez:

Caro Diego,
anche se non condivido una sola riga di quanto scrivi pubblico volentieri il tuo intervento. Proprio perché la democrazia non è stata né sospesa né eliminata. Semplicemente, commettendo anche errori, la collettività in queste settimane prova a difendersi dal contagio nel tentativo di ridurre il numero dei morti. Siano essi dovuti direttamente dal Coronavirus che indirettamente da un sistema sanitario messo in ginocchio dalla pandemia. Il parlamento ti ricordo che continua a riunirsi e votare, così come fanno i consigli comunali e regionali. È legittimo che molti provvedimenti presi da chi sta pro tempore al potere non ti piacciano. Trovo meno giusto però sostenere che siano l’anticamera di un dittatura o il frutto di una manovra che ha come obbiettivo quello di comprimere in maniera permanente.
Se hai tempo vai a farti una chiacchierata con i cittadini di Nembro e Alzano. Penso che dopo aver parlato con loro muterai il tuo punto di vista.

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