È stato condannato anche il professore Antonio De Santis nel processo “Ares” contro la ‘ndrangheta di Rosarno che si è concluso, ieri a tarda sera, in aula bunker a Reggio Calabria. A uno dei luminari della medicina legale italiana, quindi, sono stati inflitti 6 anni e 8 mesi di carcere per falsità in perizia e corruzione. Stando all’inchiesta “Ares”, infatti, in cambio di una perizia che attestasse l’incompatibilità delle condizioni di salute del boss Rosario Grasso con il regime carcerario, il medico sarebbe stato ricompensato dalla criminologa indagata Angela Tibullo con delle escort.
A rivelarlo ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria è stato uno dei medici legali interrogati nel corso delle indagini, coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal sostituto procuratore Adriana Sciglio. Parlando della Tibullo, che ha scelto di essere processata con il rito ordinario ed è imputata davanti al Tribunale di Palmi, infatti, uno dei testimoni ha spiegato che la criminologa “mi fece il nominativo di molti medici che aveva saputo ‘ricompensare’ adeguatamente… ad esclusione del dottor De Santis che la stessa mi disse di aver ripagato, non con l’erogazione di denaro, ma con la prestazione di escort”.
Il processo “Ares”, però, è molto più ampio delle sole perizie mediche che sarebbero state comprate dalla criminologa Tibullo per conto degli esponenti della cosca Cacciola-Grasso. L’indagine dei carabinieri, infatti, ha consentito ai magistrati della Dda di fotografare la scalata delle due famiglie di ‘ndrangheta che stavano approfittando del momento di difficoltà dei Pesce e dei Bellocco, gli storici clan di Rosarno colpiti in quegli anni dalle inchieste antimafia e dalla cattura dei loro principali latitanti. Il gup Domenico Armaleo ha emesso una sentenza pesantissima accogliendo le richieste del pm Sabrina Fornaro: 54 condanne e appena 5 assoluzioni per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Tutti erano accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di droga, estorsione, tentato omicidio, danneggiamenti e detenzione di armi.
Vent’anni di carcere sono stati inflitti ai vertici della cosca: Giovanni Battista Cacciola, Giuseppe Di Marte, Rocco Elia, Domanico Giampaolo, Domenico Grasso (classe 1956) e Rosario Grasso (classe 1982). L’inchiesta aveva fatto luce, inoltre, su un traffico di cocaina dal Sudamerica e di hashish dalla Spagna e dal Marocco. Grazie all’intermediazione delle famiglie di San Luca, infatti, i Cacciola-Grasso sono riusciti a fare arrivare dalla Colombia un carico di 300 chili di cocaina pura al 95%. Dal Marocco e attraverso i canali delle organizzazioni criminali spagnole, invece, in Italia sono arrivati altri 500 chili di hashish, indirizzati alle “piazze di spaccio” del Nord Italia. L’hashish marocchino, infatti, era destinato all’hinterland milanese e in Piemonte dove i rosarnesi si erano ritagliati anche il ruolo di grossisti. La pericolosità dei Cacciola-Grasso è stata dimostrata anche dall’esito delle perquisizioni eseguite in occasione del blitz del luglio 2018 quando i carabinieri hanno trovato oltre a 13 chili di droga, 900mila euro in contanti, un fucile a canne mozze, un kalashnikov, una mitragliatrice Uzi e una pistola calibro 9.