di Francesco Sani* e Pietro Paolini**
Antefatto: l’eredità di Bolívar
Venti anni fa, nel corso di un decennio, i paesi sudamericani abbracciarono uno dopo l’altro una nuova forma di socialismo, in particolare Venezuela, Bolivia ed Ecuador con le presidenze di Hugo Chávez (1999-2013), Evo Morales (2006-2019) e Rafael Correa (2007-2017). All’alba del nuovo secolo – considerando anche la vittoria di Lula in Brasile nel 2002 – l’onda lunga progressista aveva travolto democraticamente tutti i corrotti governi del Sur, con le masse mobilitate da leader politici inspirati all’eredità di Simón Bolívar. Il Libertador appunto, l’eroe che condusse la lotta d’indipendenza dalla Spagna come simbolo di liberazione dal neoliberismo economico.
Bolívar, all’inizio dell’Ottocento, aveva accarezzato il sogno di liberare tutta l’America Latina, organizzandola sotto un unico grande stato. Duecento anni dopo, ricco di risorse, ma svenduto alle multinazionali nordamericane, segnato da vergognosa povertà, disuguaglianza e sfruttamento, il “continente desaparecido” – come lo definì il giornalista Gianni Minà – era ricomparso.
Conquiste e contraddizioni del Socialismo Sudamericano
Nel momento in cui in Europa i movimenti politici degli anni ’90 subivano una forte repressione – in particolare dopo il G8 di Genova del 2001 – la sensazione di cambiamento radicale invece vibrava nell’aria in Sud America nei primi anni di queste presidenze, quando nuove Costituzioni furono scritte con ampio appoggio della popolazione. Testi carichi del sogno di società ideale che questi popoli avevano in mente nel seguire i loro ingombranti presidenti, pieni di speranza e ambizioni per il futuro. Ad oggi queste Costituzioni rimangono i semi più importanti delle pacifiche rivoluzioni.
Poi la storia nei tre paesi è andata in modo diverso, anche per loro peculiarità socio-politiche, il caso più eclatante è la situazione economica del Venezuela. Negli anni alcune contraddizioni comuni si sono rese sempre più palpabili e la distanza tra i movimenti di base e i governi ampliata. L’accentramento del potere di questi presidenti, il perseverare di corruzione e politiche economiche estrattive hanno fatto da contraltare alla forza dell’organizzazione popolare, della sperimentazione sociale e la visione di uno sviluppo non basato solo sulla vendita delle proprie risorse naturali.
La fine di una stagione radicale
Oggi, a giudicare dalla crisi del Venezuela e del Cile, dal governo di Lenín Moreno in Ecuador che sta smontando le politiche del predecessore o dal golpe istituzionale in Bolivia nel 2019 – passando per l’inchiesta giudiziaria su Lula in Brasile che ha portato alla presidenza il militare Bolsonaro – sembra che le forze reazionarie abbiano frenato il processo progressista. Evidentemente l’America Latina riesce a produrre ottimi rivoluzionari, ma una pessima classe politica, non all’altezza della coscienza dei suoi popoli. Forse è anche normale in democrazie giovani, da pochi decenni uscite da dittature militari.
Sicuramente le grandi risorse naturali di questi paesi li mette al centro di costanti e forti interessi esterni che alimentano lo scontro tra le parti politiche. Durante l’amministrazione Trump l’appoggio alle forze reazionarie è stato determinante. Questa è stata la strategia usata in Bolivia e tentata in Venezuela: aumentare il conflitto interno per rendere il paese ingestibile.
Pure lo strumento giudiziario è stato terreno di lotta politica, non solo con Lula finito in detenzione, ma anche con Evo Morales e Rafael Correa costretti all’esilio con accuse giudiziarie completamente sproporzionate.
La Bolivia garantisce un altro “giro a izquierda”
Tuttavia, la recente schiacciante vittoria di Luis Arce, eletto a presidente in Bolivia, è la conferma che in questo paese la maggior parte del popolo vuole continuare a portare avanti il progetto sociale del predecessore e le proteste che avevano costretto alle dimissioni di Morales – descritte in Occidente come lotte per la democrazia – erano montature. Arce, ministro dell’Economia negli anni di governo del Movimento Al Socialismo dal 2006 al 2019, con le sue politiche ha dimezzato la povertà (compreso quella assoluta) e aumentato il Pil pro capite del paese del 50% rispetto al 2005.
Il suo modello economico si è basato sull’investimento del surplus delle imprese pubbliche in miglioramento del welfare, il supporto alle imprese private tramite produzione pubblica di beni e servizi a loro necessari e miglioramento delle infrastrutture di trasporto. Un modello sicuramente favorito dai prezzi favorevoli per l’export delle materie prime di cui è ricco il paese, con al centro anche il piano pubblico di industrializzazione del litio. Proprio qui sta il motivo del golpe istituzionale dello scorso anno, il cui scopo era manovrare per smantellarlo.
I mandanti, da ricercare in quelle multinazionali che sul litio fondano la base della loro ricca tecnologia, incassano però una sonora sconfitta con le suddette elezioni presidenziali suppletive del 18 ottobre. In questo, la vittoria di Arce e del popolo boliviano ci dice che il giro a izquierda non è ancora finito.
Le immagini che accompagnano questo post sono state realizzate dal fotografo Pietro Paolini, che dal 2004 al 2014 ha viaggiato attraverso il Sud America per immortalare il cambiamento sociale e politico in atto. Ne è nato il libro fotografico Buscando à Bolívar, uscito lo scorso anno e che ha già ottenuto premi e riconoscimenti a livello internazionale. L’opera documenta proprio la complessità fervente e rivoluzionaria di questo continente, mettendo in luce contraddizioni di realtà socio-politiche in evoluzione e popoli pronti ad avviare cambiamenti radicali in lotta per il progresso e per la ricostruzione delle loro identità nazionale.
Photo credit: Pietro Paolini / TerraProject
*Laureato in Scienze Politiche, è giornalista pubblicista iscritto all’OdG della Toscana.
**Fotografo professionista membro del collettivo fiorentino TerraProject.
Entrambi sono da venti anni osservatori dei movimenti politici latinoamericani.