Cultura

Cent’anni di Poirot, il più grande investigatore del mondo: da Styles Court al ritorno sul Nilo (al cinema), storia di quell’egocentrico così moderno

I baffi enormi e impomatati, le ghette, i pince-nez: Agatha Christie lo inventò per una scommessa con la sorella e lo trovava insopportabile e noioso. Eppure è stato il protagonista di 55 anni di racconti e romanzi e ancora oggi risolve i suoi casi sul piccolo e sul grande schermo. Un mito che non tramonta. Forse perché, a parte l'abilità delle sue celluline grigie e del suo "ordine e metodo", da ossessivo-compulsivo somiglia tanto a tanti di noi

di Diego Pretini

Sacré! Ottobre è quasi passato e resta ancora poco tempo per alimentare un po’ l’egolatria dell’investigatore più famoso del suo tempo in Inghilterra. Quale sia il suo tempo nessuno può sostenerlo con esattezza anche perché era già vecchio quando Agatha Christie lo inventò: era il 1916, anche se la prima volta che il mondo conobbe Hercule Poirot fu cento anni fa, proprio di ottobre appunto. Poirot nacque per una scommessa e ha finito per attraversare il Novecento, viaggiando lungo 33 romanzi e decine di racconti brevi che hanno coperto la bellezza di 55 anni. Fino ad essere sempre davanti agli occhi di tutti: dalla televisione grazie alla sterminata serie con David Suchet al cinema di cent’anni dopo che sulla scia di Albert Finney e Peter Ustinov arriva ai raffinati remake di Kenneth Branagh che dopo aver zampettato sugli scompartimenti dell’Orient Express tra un po’ tornerà a bordo del Karnak, il vaporetto sul Nilo, sempre con i suoi baffi “fedeli alle letture”, così “enormi” come li aveva descritti Agatha Christie nei libri e nelle interviste.

Hercule Poirot, en verité, ha compiuto cent’anni proprio questo mese perché comparve per la prima volta nell’ottobre 1920 a Styles Court, un maniero nella campagna dell’Essex, dove viene chiamato dall’amico un po’ meno sveglio, il capitano Hastings, per risolvere il primo dei delitti che gli daranno tale fama che da lì in poi spunterà sempre qualcuno che – a volte per sincera ammirazione e a volte per dileggio che Poirot non sempre coglie – esclama qualcosa come “Uh, il grande investigatore!”.

Il misterioso affare di Styles Court, dove muore la padrona di casa, avvelenata dalla stricnina, era stato scritto da Agatha Christie nel 1916 e quasi per caso: aveva scommesso con la sorella Madge. “Ma figurati se sei in grado di scrivere una vera detective story!”. Madge sembrava essere lì lì per aver ragione, ma la sua soddisfazione durò solo qualche anno: un paio di case editrici lasciarono il manoscritto di Agatha ad impolverarsi, ma una terza le chiese delle modifiche al capitolo 12, le sottopose un contratto per cui l’autrice avrebbe guadagnato pochissimo e stampò il libro negli Stati Uniti (e solo a gennaio anche nel Regno Unito).

Così comincia la storia di un investigatore che Agatha Miller sposata Christie immaginava già vecchio quando era appena uscito dal suo inchiostro e sul quale lei stessa non ha mai cambiato idea. Lo definì insufferable, insopportabile, già dopo dieci anni e ribadì e integrò il concetto negli anni Sessanta additandolo come un “mostriciattolo detestabile, noioso ed egocentrico”. E’ complicato darle torto: Poirot si dà un sacco di arie perché si ritiene infallibile e poi in effetti lo è anche quando sembra inzuppato in un catino di nebbia fino a 5 pagine dalla fine, bullizza il capitano Hastings – uomo d’azione, sincero e un po’ ingenuo, sensibile più alle gonne che agli indizi – nascondendogli anche qualche informazione, e – in definitiva – Poirot parla di sé in terza persona, il che fa capire il livello di disturbo della personalità di un tipo da cui peraltro non solo compreresti una macchina usata ma al quale affideresti direttamente la gestione del conto corrente (a proposito Hercule è molto attento alla stabilità finanziaria e preferisce avere un saldo di 444 sterline, 4 scellini e 4 pence).

Eppure libro dopo libro, film dopo film, decennio dopo decennio, mentre nell’aspetto sembrava diventare sempre più retrò per non dire vecchio come il cucco (i baffi impomatati, le ghette, le scarpe verniciate, l’orologio nel taschino del panciotto, i pince-nez), Poirot per altri versi ha assunto via via le sembianze di un possibile prototipo di cittadino moderno: non solo la sua fedeltà – da società sempre più secolarizzata – nelle sue little grey cells, le celluline grigie, a dispetto di religioni, superstizioni di amuleti, cabale, maledizioni di mummie e macumbe, ma soprattutto i suoi comportamenti da ossessivo-compulsivo per cui risulta familiare, quasi da non stupirsi ad incontrarlo su un bus della Circolare destra a Milano o sulla 53 a Roma.

Ecco no, esempio più sbagliato non poteva esserci: lì, ammassato sui mezzi di trasporto, Poirot – igienista maniacale, amante degli spostamenti in taxi e dentro scompartimenti ben chiusi di treni a vapore – non sarebbe mai stato e, anzi, non avrebbe certo dovuto imparare come rispettare i distanziamenti sociali in giorni come questi visto che è terrorizzato anche da un briciolo di biscotto (più complicato sarebbe stato far convivere la perfezione della pettinatura dei baffi con la mascherina).

Quando arriva a Styles Court, quella prima volta, il capitano Hastings lo descrive con questa formula che gli appassionati sanno a memoria: “Era alto meno di un metro e sessantacinque, ma aveva un portamento molto eretto e dignitoso. La testa era a forma di uovo, costantemente inclinata da un lato. Le labbra erano ornate da un paio di baffi rigidi, da militare. Il suo abbigliamento era inappuntabile. Penso che un granello di povere gli avrebbe dato più fastidio di una ferita. Eppure questo elegantone era stato ai suoi tempi uno dei funzionari più in gamba della polizia belga. Come investigatore, aveva un fiuto straordinario. Aveva all’attivo numerosi trionfi, essendo riuscito a risolvere i casi più complicati”. (Elegantone, come Trinità)

Ex capo della polizia di Bruxelles, rifugiato in Inghilterra durante la prima guerra mondiale e dopo lo “stupro del Belgio”, Poirot è un rifugiato e non manca mai di ricordare la condizione precaria, precaria per la vita. Soffre il mal de mer (it is horrible suffering!), si arrabbia se qualcuno gli sbaglia il nome e precisa sempre di essere belga, belga non francese, belga anche se il suono di primo acchito ricorda la Francia. Figurarsi quando a un certo punto gli danno del greco. Obnubilato dalla simmetria, impazzisce se due uova per colazione non sono esattamente identiche e vive in un appartamento al 56B di Whitehaven Mansions, un moderno complesso edilizio scelto proprio perché esattamente simmetrico. In tutti quei libri sappiamo che si è innamorato una volta sola e per sempre, della contessa russa Vera Rossakoff, una ladra di gioielli. E’ l’unico personaggio immaginario per il quale il New York Times ha riservato un necrologio.

Oltre alla quota di morti ammazzati che si ritrova spesso tra i piedi in treni, spiagge, navi, isole, vacanze in Mesopotamia (ha un palmares secondo solo a Jessica Fletcher e Oetzi), Poirot ha ritrovato perle preziose e parure, salvato premier da rapimenti, incastrato domestici, fatto arrestare patriarchi e ereditiere, sbugiardato attrici e playboy, risolto omicidi che sembravano suicidi, smascherato camuffamenti, sparruccato bionde che sembravano more, strappato barba e baffi da facce glabre. Sempre, o quasi sempre, con il suo discorsetto finale al quale tutti – compresi Hastings e l’ispettore Japp di Scotland Yard, un altro sempre secondo come Toto Cutugno – devono necessariamente sorbirsi per sapere finalmente chi è l’assassino. E’ il benedetto, rituale, sacrale denouement, l’epilogo. L’indagine è un modo per rimettere a posto le cose, una ricerca incessante dell’ordine, da paranoico qual è: ordine e metodo, ripete ossessivamente ad Hastings, giustamente stizzito. Non cerca peli sui tappeti, briciole sui cappotti, impronte a misura nel fango come Sherlock Holmes: lascia parlare e ancora, e ancora, con un’ultima domanda perché tanto “le persone sono destinate a tradirsi”. Le domande sembrano bizzarre ma grattano grattano, per indagare l’animo umano, la psicologia, una vera bussola per Poirot che non a caso sull’Orient Express… no, ché magari qualcuno non l’ha mai letto.

A proposito: il capitolo 12 di Poirot a Styles Court, ricordate, mes amies? Era stato modificato dalla prima casa editrice cent’anni fa. Quest’anno per festeggiare il compleanno di Poirot Mondadori ha ripubblicato quel primo romanzo (228 pagg, 13 euro) con il testo originario di Agatha Christie. Giallo risolto, n’est-ce pas?

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