“Siamo tutti Charlie!”. Ricordo l’orgoglio con cui ho portato a Parigi nelle redazioni televisive francesi la copia del Fatto Quotidiano, che il direttore Padellaro aveva voluto rivestire della copertina di Charlie Hebdo all’indomani delle barbare aggressioni ai redattori del giornale satirico. Era il gennaio 2015.
Siamo tutti dalla parte della libertà di espressione. Siamo tutti, oggi, dalla parte degli insegnanti di Francia. Siamo tutti contro il fondamentalismo e il terrorismo islamisti e siamo anche dalla parte del presidente Macron, quando annuncia battaglia contro il separatismo culturale-religioso predicato dagli integralisti in nome della sharia.
A proposito delle vignette su Maometto è stato posto l’interrogativo se esista anche il diritto alla blasfemia. La risposta non può che essere affermativa, se ci si colloca nella prospettiva del primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti: la tutela della illimitata libertà di parola e di stampa. Illimitato vuol dire che non esistono santuari né politici né etnici né religiosi né istituzionali. Tutto può essere oggetto di satira, giudizio o attacco. E tuttavia fa parte della tradizione culturale dell’Occidente anche la libertà di giudicare, il diritto insopprimibile di sottoporre ad analisi critica tutto.
E’ così dal momento in cui i primi pensatori greci sottoposero al vaglio della ragione le credenze religiose relative ai fenomeni naturali. E così, ancora di più, da quando Socrate ritenne fosse dovere del filosofo sottoporre al metodo dell’indagine razionale e del contraddittorio ogni opinione.
E allora nessuna vignetta, nessun articolo, nessun libro, nessun video, nessun tweet può sfuggire a questa regola di libertà. Perché esiste – altrettanto sacra – la libertà di analisi critica e di giudizio.
Non c’è dubbio che il Mein Kampf di Hitler sia un prodotto della libera (e malata) espressione di un individuo. E così le pubblicazioni suprematiste che costituiscono un architrave della struttura mentale razzista negli Stati Uniti. Satira è anche l’infame produzione di vignette antisemite dai tempi del nazismo ad oggi. Prodotto del libero pensiero è anche il libro chiamato “I Protocolli dei Savi di Sion”, sorto negli ambienti reazionari zaristi per propagandare l’idea di una cospirazione mondiale ebraica.
Forse che queste espressioni del pensiero non possono essere sottoposte a giudizio? E allora è lecito anche mettere sul tavolo la vignetta che mostra Maometto nudo a quattro zampe con una stella gialla piantata all’altezza del deretano. Che cosa trasmette questo disegno? C’è una relazione diretta tra la valenza simbolica di Maometto e il terrorismo islamista? C’è una motivazione di critica politica, che stabilisca un nesso tra Maometto e la stella presumibilmente natalizia piantatagli addosso? Ha qualcosa a che fare con la denuncia del fondamentalismo o della violenza (che pretende di ispirarsi a valori religiosi, ma in realtà ne è la brutale e ottusa manipolazione) l’immagine di Maometto ritratto come un animale accovacciato?
La risposta è tre volte no. Con la denuncia e la lotta al terrorismo islamista quell’immagine non ha nulla a che fare. Nessuno penserebbe di disegnare Abramo o Mosè per denunciare il terrorista ebreo Baruch Goldstein che un quarto di secolo fa massacrò 29 fedeli musulmani sulla tomba di Abramo a Hebron. Nessuno disegnerebbe Cristo per condannare i torturatori fascisti dell’America latina, che nel secolo scorso inneggiavano alla difesa della civiltà cristiana e a Dio (patria e famiglia). E nessuno penserebbe di disegnare Buddha per criticare i fanatici fondamentalisti buddisti che in Myanmar si accaniscono contro i Rohingya.
E se qualcuno – usufruendo della sua garantita libertà di espressione – pubblicasse cose del genere, sarebbe legittimo considerare ripugnanti simili prodotti in nome dell’altrettanto sacrosanto diritto di critica. Perché, andando al nocciolo, Maometto a quattro zampe ispira unicamente derisione e umiliazione. In altre parole alimenta disprezzo e odio per quella parte di mondo che – richiamandosi ad un diritto inalienabile sancito dalle costituzioni – segue la propria credenza e nulla ha a che fare con il terrorismo. Un messaggio di puro incitamento al disprezzo e all’odio è ignobile.
Ero a New York nel settembre 2015 quando papa Francesco partecipò ad una preghiera interreligiosa a Ground Zero, la voragine provocata dall’attacco di al Qaeda l’11 settembre 2001 dove furono uccise 2977 persone e ferite oltre 6000. Pregarono fianco a fianco il rabbino e l’imam, esponenti cristiani e delle altre religioni. Perché nella lotta al fanatismo terrorista l’imperativo è unire le comunità. Unire, non spaccare.