Nuove forme di business e nuove liberalizzazioni, ma puntando questa volta sulla tecnologia e le produzioni ad alto valore aggiunto. E’ la nuova ricetta di crescita che la Cina intende inaugurare dopo il Covid. A sancirlo è stato il presidente Xi Jinping durante la sua visita a Shenzhen. Non a caso il luogo dove Deng Xiaoping, l’uomo delle “riforme e aperture” dopo Mao, inaugurò la prima Zona Economica Speciale nel 1980 per intraprendere le riforme di mercato. Come riporta la rivista economica cinese Caixin, Xi ha attualizzato una frase di Deng: la Cina deve adottare un mix tra la strategia di “attraversare il fiume tastando le pietre” – fin qui, Deng – e l’obiettivo di “potenziare la progettazione di alto livello”. Una svolta che deriva anche dalla lezione della crisi del 2008, che fu affrontata con forti investimenti in infrastrutture e costruzioni da cui sono nate bolle speculative.

Nel 1992, l’allora leader supremo cominciò proprio a Shenzhen il suo “viaggio al sud”, che riaffermò la linea delle riforme e aperture, di cui la città nata praticamente dal nulla era il simbolo vivente e pulsante. Doveva chiarire a tutti la direzione verso cui la Cina si sarebbe incamminata, dato che l’ala dura del Partito intendeva fare marcia indietro dopo le vicende di Tian’anmen 1989. Lo sviluppo economico è fondamentale, anzi vitale, per la stabilità del sistema, comunicò a urbi et orbi Deng Xiaoping. Nel celebrare il quarantennale della Zona Economica Speciale, Xi Jinping ha scelto gli stessi luoghi per comunicare un altro strappo: continuiamo in direzione dello sviluppo economico, ma cambiando direzione. Xi ci ha anche tenuto a ribadire che se Shenzhen si è trasformata in questi 40 anni dal desolato retroterra di Hong Kong – che neppure Michelangelo Antonioni di passaggio volle filmare durante il suo viaggio del 1973 – nella Silicon Valley cinese dove 11 milioni di persone comprano e vendono case a prezzi più alti che a Pechino e Shanghai, questo è dovuto alla guida ferma e illuminata del Partito.

Una delle chiavi del discorso di Xi, dell’attuale retorica politico-economica cinese e del futuro di Shenzhen come metropoli simbolo e al tempo stesso ecosistema del prossimo balzo in avanti, è che il nuovo modello di sviluppo sia basato sui consumi domestici più che su investimenti ed esportazioni. Quando nel 2008 la Cina cercò di fare barriera contro la crisi finanziaria globale e conseguente riduzione dell’export, il governo varò un pacchetto di stimolo da 4 trilioni di Renminbi (al tempo, 586 miliardi di dollari) che finì soprattutto in infrastrutture e costruzioni. La pioggia di denaro e di cemento servì da subito a dare liquidità ai governi locali – che cavalcarono la politica delle infrastrutture – , a tenere in vita le grandi imprese di Stato e a creare occupazione, ma c’è consenso nel ritenere che sul lungo periodo ha finito per produrre debito e bolle speculative, in particolare quella immobiliare. La storia economica cinese degli ultimi dieci anni può essere sintetizzata come il tentativo di frenare gli eccessi creati dallo stimolo del 2008 per destinare risorse a investimenti più produttivi e ad alto valore aggiunto, soprattutto nel settore high-tech.

La svolta di oggi si sintetizza invece nella formula “doppia circolazione”, cioè di sviluppare il mercato interno come antidoto agli alti e bassi di quello internazionale. Bisogna dare potere d’acquisto ai cinesi – tutti – per un nuovo modello che nel discorso di Xi sarà “incentrato sull’uomo”, sui “servizi pubblici”, sulla “civiltà ecologica”, e al tempo stesso “tecnologico” (in settori come l’intelligenza artificiale, i veicoli senza conducente, i big data e le biotecnologie) e sempre più aperto dal punto di vista del mercato finanziario: una sorta di mix tra welfare e dinamismo da economia avanzata. L’immagine che fa capolino nei meandri del cervello è quella di una moderna metropoli che divenga uno standard replicabile in tutta la Cina, ipertecnologica e popolata da un nuovo ceto medio con competenze di alto livello e propensione ai consumi.

Ora, quanto di questa visione è già intuibile negli ultimi dati sull’economia cinese, quelli relativi al terzo trimestre 2020, anno della pandemia? La Cina ha registrato una crescita del 4,9 per cento, che sommato al +3,2 dei tre mesi precedenti la riporta già in zona positiva dopo il tracollo del -6,8 nel primo trimestre dell’anno, il più duro per l’epidemia di Covid. È forse l’unico paese che appare in netta ripresa. Non è però tutto oro ciò che luccica, se l’obiettivo finale è quello di accelerare verso un’economia trainata dai consumi interni. La crescita si è infatti basata su un’accelerazione del 5,8 per cento nella produzione industriale; le vendite al dettaglio sono cresciute solo dello 0,9. Insomma, i nuovi dati dicono che, almeno per il momento, permangono antichi vizi e virtù, le caratteristiche che hanno fatto la fortuna della Cina ma che oggi non bastano più, creano debito e, da ultimo, producono tensioni con gli Stati Uniti: investimenti massicci, soprattutto nelle imprese di Stato, ed esportazioni; negli ultimi due mesi, l’avanzo commerciale ha registrato nuovi record. Il paese da un miliardo e 400 milioni di consumatori – possibilmente consumatori di prodotti cinesi di alta gamma – è ancora una chimera. La svolta che promette Xi Jinping citando Deng Xiaoping appare ancora distante; ma per ora, alla leadership di Pechino basta probabilmente mettere il segno “più” di fronte ai dati della crescita. “Attraversare il fiume tastando le pietre”.

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