Ieri in tutto il Lazio si sono contati, a fronte di 1.993 positivi, 33 nuovi ricoveri. Eppure i pronto soccorsi sono stati assaltati da persone in cerca di un consiglio, di un controllo, di una cura. Lo spavento è tanto e l’assillo di chiedere a un medico, e cercarlo dove siamo sicuri che ci sia, è giustificato. In Italia però ci sono circa 53mila medici di base, e il rapporto medico/abitante è nella media europea. Siamo invece al primo posto per numero di pediatri, poco meno di 18mila.
Se è vero che il governo, ma soprattutto le Regioni, non hanno provveduto a incrementare l’organico degli Usca (le unità specializzate anti-Covid), è però certo che la medicina territoriale, per quanto malconcia e avanti con gli anni, esiste ancora. E a differenza del marzo scorso i dispositivi di protezione individuale sono accessibili a tutti gli operatori sanitari e garantiscono sicurezza assoluta, come pure i protocolli di cura oramai standardizzati. Allora perché far fare ai pronto soccorso ciò che è naturalmente destinato ai compiti del medico di base? Perché lasciare assaltare gli ospedali, bruciando energie preziose, quando la prima linea della cura domiciliare è affidata ad altri soggetti?
Se non dobbiamo dimenticare i medici caduti sul lavoro, soprattutto quelli lombardi, che a mani nude si sono battuti contro il virus senza risparmiarsi (e infatti quasi duecento sono le vittime) e i tanti che ogni giorno mostrano sacrificio e dedizione, è indubitabile che una frotta non esigua di loro colleghi assistono senza intervenire, osservano, come fossero vigili urbani e instradano per telefono. Sbarrati troppi studi medici, inaccessibili e sordi o quasi all’obbligo professionale: curare e sorvegliare coloro che non necessitano di cure ospedaliere. Si vede che per tanti (troppi) il giuramento di Ippocrate è sospeso, anch’esso in lockdown.