Gianpaolo Scafarto e Alessandro Sessa dovranno affrontare un processo. L’ex maggiore del Noe e il colonnello dell’Arma sono stati rinviati a giudizio in uno dei filoni del caso Consip. A deciderlo i giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Roma accogliendo la richiesta della Procura generale che lo scorso primo ottobre aveva chiesto per entrambi il rinvio a giudizio. Per Scafarto l’accusa è di rivelazione del segreto, falso e depistaggio, mentre per Sessa l’accusa è di depistaggio.

Entrambi erano stati prosciolti dal gip Clementina Forleo nell’ottobre del 2019 ma la Procura capitolina aveva impugnato la decisione. Per il pm Mario Palazzi, che in questo procedimento era stato applicato alla procura generale, le “prove acquisite sono granitiche”, aveva detto nella scorsa udienza. Il processo è stato fissato per il 9 dicembre davanti alla seconda sezione collegiale del Tribunale di Roma.

Per Scafarto l’accusa è di aver svelato al vicedirettore del Fatto Quotidiano, Marco Lillo, il contenuto delle dichiarazioni di Luigi Marroni, ex amministratore delegato dell’azienda che gestisce gli appalti pubblici agli inquirenti di Napoli e l’iscrizione nel registro degli indagati di Tullio Del Sette, un atto coperto da segreto. Al militare è stato contestato anche il falso relativo all’informativa in cui attribuiva la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” a Romeo. In realtà a pronunciare quella frase (senza che si riferisse a Tiziano Renzi) era stato l’ex parlamentare Italo Bocchino. Scafarto ha sempre ribadito di non aver “mai taroccato” alcuna informativa. Ma, stando all’accusa, nell’informativa aveva inserito anche il presunto coinvolgimento di “personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti, ometteva scientemente informazioni ottenute a seguito delle indagini esperite”. Nell’informativa scrisse che aveva “il ragionevole sospetto di ricevere attenzioni da parte di qualche appartenente ai servizi”. Ma non solo. Sempre al militare, in concorso con il collega Alessandro Sessa, viene contestato il depistaggio per aver disinstallato Whatsapp dallo smartphone del colonnello e impedire quindi agli inquirenti di ricostruire le loro conversazioni.

Una ricostruzione che, al termine dell’udienza del 3 ottobre 2019, è stata contestata dal gup Clementina Forleo. A suo parere, da parte di Scafarto non ci fu ad esempio alcuna alterazione dell’informativa con l’obiettivo di arrivare a Tiziano Renzi. “Se Scafarto avesse comunque voluto ‘inchiodare’ Renzi – si legge nella sentenza – avrebbe sicuramente avuto gioco facile nella correzione dell’errore che era stato da altri compiuto e non avrebbe ripetutamente sollecitato tutti i suoi collaboratori a risentire le conversazioni, a chiedere di eventuali incontri tra Tiziano e Romeo e soprattutto a invitare tutti i predetti a una rilettura dell’informativa, evidentemente finalizzata a scongiurare errori”.

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