Il 30 ottobre Diego Armando Maradona ha compiuto 60 anni. Neanche un mese fa. Ilfattoquotidiano.it decise di infrangere una regola: non un articolo, ma un ritratto. Lungo, lunghissimo. Perché per Diego ci voleva spazio, ci voleva tempo, anche se con lui in campo il tempo è sempre stato un concetto relativo. Diego Maradona oggi è morto. E le righe di neanche un mese fa hanno un sapore diverso. Rileggere per credere.
Diego Armando Maradona zompetta sul prato alopecico del Monumental. Sa che sono tutti lì per lui. In settantamila. Può sentire il loro rancore stringersi intorno alla sua gola. Può ascoltare i loro insulti grandinargli addosso dalle tribune. Piovono giù dai tifosi del River Plate. Piovono giù dai tifosi del Boca Juniors. Perché da qualche settimana anche loro hanno smesso di gridare il suo nome. Perché da qualche tempo anche loro hanno smesso di considerarlo una divinità. Diego Armando Maradona si porta avanti la palla con il sinistro e supera la metà campo. Un passo. Due passi. Tre passi. Poi allarga verso sinistra e scompare dall’inquadratura. È il 25 ottobre del 1997. E quando l’arbitro fischia la fine del primo tempo il Boca è sotto 1-0 nel Superclásico di Buenos Aires. Maradona si infila rapido nel tunnel degli spogliatoi. Ancora non sa niente. Non sa che los Xeneizes alla fine vinceranno per 1-2. Ma che lo faranno senza di lui. Perché il diez non rientrerà in campo all’inizio della ripresa. Non sa che quella sarà la sua ultima partita, che sarà costretto a dire addio. E che dovrà farlo dopo una giocata così banale. Non con una punizione che piega la logica e le mani del portiere, non con un pallonetto che lascia sospeso uno stadio interno, non con un dribbling che pietrifica il difensore avversario. Il suo ultimo fotogramma non è nient’altro che un passaggio a sinistra verso il compagno più libero. E poi basta.
Mentre Claudio Caniggia prende il suo posto in mezzo al campo, Maradona inizia a spogliarsi. La sua vita di calciatore finisce lì. A 37 anni. Nello spogliatoio della squadra che più di tutte ha odiato nella sua vita. È fra quelle mattonelle sbeccate e fra quelle docce incrostate che tutto gli appare improvvisamente chiaro: il suo futuro non sarà mai paragonabile al passato. È tutto quello che ha fatto fino a quel giorno sulla cancha, sul campo, che lo ha reso grande. Ed è tutto quello che ha fatto fuori che lo ha reso immortale. Il resto sarà solo spettacolo che non potrà aggiungere niente, ma solo sottrarre. La sua dimensione è stata il talento, la sua cifra la sregolatezza. Solo che gli eccessi non sono mai riusciti a dissipare il suo talento, a farlo evaporare lentamente giorno dopo giorno, ma l’hanno distillato e amplificato. Fino a strapparlo dal piano umano e a trascinarlo su quello della divinità. Un dio pagano che per tutta la vita ha provato a lavarsi via l’odore della povertà di partenza. Un miasma che neanche le ville con piscina, le auto di lusso, i vestiti firmati, che neanche l’oro è riuscito a cancellare. Diego Armando Maradona può sentirlo ancora oggi che compie 60 anni.
Tanfo di intonaco bagnato da quella pioggia che filtrava dal tetto di lamiera della sua casa di Villa Fiorito. Periferia a sud di Buenos Aires che diventa estrema periferia del mondo. Gli autobus presi senza biglietto per andare agli allenamenti. E le sue sorelle costrette a sfilare di nascosto qualche moneta ai loro mariti per darla al Nene. “Quando vieni da molto lontano – dirà – sai che tutto quel che sei stato, sei e sarai non è altro che lotta“. Ma è ancora presto. Il pallone è ancora un anestetico, qualcosa che riesce a tenere fuori la sofferenza dalle Siete Canchitas, i Sette Campetti. Terra battuta che si impasta con la pioggia e che si appiccica ai vestiti, fango che ingoia il pallone fino a non farlo più rimbalzare. L’epifania arriva a 10 anni. L’Argentinos Juniors organizza una serie di provini al parco Saavedra. Maradona entra e gioca come ai Sette Campetti. Dribbling, colpi di tacco, tiri da lontano. E anche qualche gol. L’allenatore lo chiama in disparte e gli chiede: “Nene, sei sicuro che sei del 1960?”. Quello che non gli dice è che ha paura che si tratti di un nano che si è mescolato a quei ragazzini.
Fin da piccolo Maradona è multidimensionale, un ragazzino che porta dentro di sé tutto e il suo contrario. Nelle giovanili è quello che può battere con una giocata una squadra interna, ma è anche quello che prima di ogni partita prega Dio affinché scenda a giocare accanto a lui. Senza sapere che, per almeno una Nazione intera, i due finiranno per essere parigrado. Ma in attesa di debuttare con la maglia dell’Argentinos Juniors, Maradona deve accontentarsi del ruolo di foca, di giocoliere da mostrare per intrattenere il pubblico. Perché durante le partite fa il raccattapalle. E negli intervalli inizia a palleggiare con un’abilità inimmaginabile. Fino a quando dalle tribune non parte il coro “Que se quede!”. Lo spettacolo è lui, non più la partita. È lì che comincia a prendere forma l’altra sua grande caratteristica. Perché Maradona fagocita tutti gli altri. I suoi compagni di squadra diventano automaticamente gregari. Gli avversari possono accontentarsi di vivere di luce riflessa, di impedirgli una giocata, di disinnescare un suo dribbling, di bloccare un suo tiro. I riflettori sono fissi su di lui. E in alcuni casi finiscono con l’abbagliarlo.
La prima delusione arriva da uno dei suoi idoli. César Luis Menotti lo aggrega al preritiro della Selección che dovrà giocare il Mondiale del 1978. Solo che poi non lo inserisce nella lista dei 22. Quel ragazzino è ancora acerbo per giocare un mondiale. È ancora troppo giovane per compiere la missione dei militari. “Non ho perdonato El Flaco Menotti per quella storia né intendo perdonarlo – dirà – ma non l’ho mai odiato. Odiare è diverso da non perdonare”. Il risentimento diventa combustibile buono per resistere alle botte degli avversari, per alzare il livello del suo calcio. Ma è anche un peccato originale che lo porterà a scontrarsi con tutti i suoi allenatori e a riappacificarsi solo con alcuni. D’altra parte come si fa ad ammaestrare il talento, come si può imporre la disciplina a una divinità? A Barcellona il rapporto con Udo Lattek si fa subito piuttosto complicato. Maradona ama dormire fino a tardi il giorno della partita, l’allenatore invece gli impone di svegliarsi la mattina presto per fare una camminata. Poi arrivano le palle mediche da otto chili. Che prima delle sfide contro il Real ne pesavano 20. I giocatori devono portarle da porta a porta. Maradona esegue. Fino a quando un giorno non finisce per sbottare. “Sente, mister, ascolti una cosa – dice dopo averne calciata una contro Lattek – perché non prova lei una volta e vediamo come si sente domattina?”.
A Napoli non va meglio con Ottavio Bianchi. “Non gli tiravi fuori un sorriso nemmeno a suon di milioni”, ha raccontato Maradona. Un giorno il mister si avvicina a Diego e gli dice di fare un esercizio: doveva buttarsi a terra e poi spazzare di destro e di sinistro. Il 10 non ha nessuna voglia di eseguire. “Io non mi butto per terra – risponde – in genere sono gli avversari che mi buttano per terra”. Bianchi lo fissa e dice: “Bene, a quanto pare avremo problemi per tutto l’anno£. Maradona non abbassa lo sguardo e sentenzia: “Bueno. E te finirai per andartene“. L’unico ad aver guadagnato davvero la sua stima è stato Bilardo. Il Mondiale del 1982 è un incubo che torna a tormentare Maradona. Tutte le sante notti. Tutti i santi giorni. Un anno più tardi Diego si allena a Lloret de Mar per provare a riprendersi dall’epatite quando all’improvviso qualcuno suona al suo campanello. È Carlos Bilardo, il commissario tecnico della Selección. El Narigón, il nasone, gli dà un bacio sulla guancia e gli chiede se ha una felpa da prestargli perché vuole allenarsi con lui. “La prima cosa che pensai fu esattamente la stessa che pensai molte altre volte, nel corso di tanti anni di rapporto: ‘Questo tipo è matto, questo tipo ha problemi di testa’”. Invece il tecnico gli sta affidando la Nazionale in vista del Mondiale del 1986. E il ruolo di capitano.
Fra i due si crea un’alchimia che si sublima nei quarti di finale contro l’Inghilterra, quando Maradona supera Shilton con la Mano de Dios. Diego diventa un eroe nazionale. È il Robin Hood che ruba ai ricchi per dare prima di tutto a se stesso e poi, di rimando, agli altri. E quella frase, “Se ho segnato con la mano? È stata per metà la testa di Maradona e per metà la mano de Dios”, resterà uno dei momenti più iconici della sua carriera, più ancora di quella Coppa conquistata contro la Germania. Perché è la prova della sua capacità di dribblare i concetti di onestà e disonestà, di abbracciarli entrambi nello stesso identico momento per poi trasformare una scorrettezza in un gesto sovversivo, rivoluzionario. Eppure quella mancata convocazione del 1978, quelle lacrime, quel dolore, gli insegna anche ad agire con la testa prima ancora che con i piedi. Il River Plate comincia a cercarlo nel 1981. È pronto a ricoprirlo di soldi. Ma lui proprio non ne vuole sapere. Suo padre lo aveva sognato con la divisa del Boca, gli aveva trasmesso il rispetto per quei colori. E lui non ha nessuna intenzione di deluderlo. Se proprio doveva lasciare l’Argentinos Juniors doveva essere per La Bombonera. Solo che il Boca ha casse vuote e idee asciutte. Così tocca a lui fare il primo passo. Quando gli chiedono se andrà al River lui risponde: “So che il Boca mi vuole. Andrò lì”. Non è vero. Ma funziona. La trattativa si allaccia grazie alla sua astuzia.
Diego diventa una slot machine capace di realizzare i sogni degli altri. Anche quelli di suo padre. Il “Vecchio” aveva seguito solo un derby in vita sua. Al Monumental. Ed era stata un’esperienza traumatica. Compresso dalla folla nella curva del Boca, aveva visto festeggiare i tifosi del River. Poi più niente. Almeno fino a quando suo figlio si era infilato la numero 10 azul y oro e gli aveva regalato un biglietto per la tribuna. Settore E. E subito dopo aveva bucato il Pato Fillol. Qualcuno inizia a chiamarlo D10S, ma Diego assomiglia più a uno sciamano. Si trasforma in un ponte fra il sacro e il quotidiano. Tutto quello che fa è trascendente, va oltre la dimensione umana. Assume qualità divinatorie. Come a Barcellona. La città che sembrava perfetta per il suo calcio eversivo e che invece lo intrappolerà in una bolla oscura. Prima l’epatite. Poi l’incontro con la cocaina. Il 24 settembre del 1983 Diego va a trovare un bambino in ospedale. Era stato travolto da una macchina e aveva le ossa delle gambe in frantumi. Il Pibe lo abbraccia, gli dà un bacio, poi se ne va. Ormai è arrivato alla porta quando il bimbo gli urla: “Diego, stai attento per piacere che ora ce l’hanno con te!”. La sera stessa il Barcellona affronta l’Athletic Bilbao. I blaugrana sono in vantaggio per 3-0 quando Andoni Goikoetxea entra duro sull’argentino e gli frattura una caviglia. Maradona ripensa alle parole che gli aveva detto qualche ora prima il bambino. La sua trasformazione in stregone è ormai definitiva.
Durante i Mondiali del 1990 Pedro Monzón non fa altro che parlargli. Gli ripete che vuole segnare un gol, che vuole diventare importante. Così il Pibe gli dice di andare ad attaccare il primo palo durante i calci d’angolo che lo farà segnare. E succede davvero. Contro la Romania. Nel 1997 Monzón torna con la mente a quel gol. Stavolta però è seduto nel suo garage. Con una pistola in mano. Non si è mai sentito così solo. La sua compagna l’ha lasciato. Il calcio è un ricordo sbiadito, la droga un richiamo troppo forte. Scandaglia la sua vita e proprio non riesce a trovare un motivo per cui non dovrebbe ficcarsi una pallottola nel cervello. Così prende il telefono e compone il numero di Diego. Se risponde vivrà. Se non risponde la farà finita. Monzón chiude gli occhi proprio mentre Maradona preme un tasto e dice “pronto”. “Dove sei?” domanda el Diez, “sto venendo a prenderti“. Un supereroe a domicilio che salva vite e regala sorrisi.
Napoli all’inizio non è niente di speciale per Maradona. È un nome che ha sentito parecchie volte ma che non sa definire. È qualcosa di italiano come la pizza. È un’occasione per tornare ad arricchirsi dopo che gli investimenti sbagliati avevano risucchiato via i dollari dai suoi conti. Tutto qui. Quando il 5 luglio del 1984 arriva al San Paolo dice solo: “Buonasera napoletani. Sono molto felice di essere con voi”. Poi va dai giornalisti e attacca a parlare: “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono com’ero io quando vivevo a Buenos Aires”. Ed è vero. Quello che lo lega alla città e alla sua gente va oltre il rapporto simbiotico, oltre l’idea di culto. Maradona lo capisce il 16 settembre del 1984, quando gioca a Verona. La prima cosa che vede quando entra in campo è quello striscione. C’è scritto “Benvenuti in Italia“. È lo stesso striscione che campeggia con infinite varianti in tutti gli altri stadi del Nord, dove qualcuno si prende anche la briga di aggiungere “Lavatevi”.
Maradona torna a essere una macchina che realizza i sogni degli altri. Ma stavolta realizza anche i suoi. I suoi gol e le sue giocate diventano fonte di salvezza per il suo popolo eletto. Si crea una religione che non può attecchire in nessun’altra parte del mondo se non lì. La partita della domenica diventa una forma di eucarestia. Non si va a vedere il Napoli, si va a vedere Maradona. Perché lui porta in dono quello che Napoli non ha ancora avuto. Nel calcio, ma non solo. Diventa l’immagine del riscatto, della periferia che si fa centro, della rivincita del povero sul ricco, dell’operaio sul padrone che non ha più potere né pretese. Almeno per 90 minuti a settimana. “Noi del Sud non siamo nella posizione di non approfittare delle chances – ripete – Né nel calcio, né tantomeno nella vita”. Maradona non può scegliere. Neanche quando Berlusconi si presenta da lui con un contratto in bianco e gli chiede di scrivere la cifra. Perché ha speso una montagna di quattrini per il Milan e ora è stanco di non vincere più. Diego sorride e rifiuta. Accettare sarebbe passare dalla parte del più forte. Firmare vorrebbe dire tradire. Il campo diventa un ammortizzatore sociale, il modo per evadere dal quotidiano che opprime, per mettere il muso fuori da quello che assomiglia molto a un ghetto. E tutto è possibile grazie a lui, Diego, che dimostra che si può essere stella ed emarginato allo stesso tempo, che si può rinascere in un posto lontano anche se ci sei finito per puro caso.
A Napoli le giocate di Maradona ridefiniscono il concetto stesso di immaginazione, lo spingono più in là, trasformano in pratica quello che nessuno era riuscito prima nemmeno a pensare. E vale lo stesso per quello che succede fuori dal campo. Nel 1985 il suo compagno di squadra Pietro Puzone chiede a Maradona di giocare una partita per aiutare un bambino malato. Il campo è ad Acerra. Ed è poco più di una distesa di fango con due porte. Ferlaino non ha nessuna intenzione di dargli il permesso. Così Maradona firma da solo per la sua assicurazione e parte. Le immagini fanno il giro del mondo. Il calciatore più forte del pianeta si cambia in un parcheggio con una Fiat Argenta alle spalle. E poi si mette a correre, a dribblare, a fintare. È un bambino incastrato nel corpo di un adulto, con i denti bianchi che spiccano fra le macchie di fango. Un’immagine molto diversa da quella di un’altra partitella. Nel dicembre del 1991 Maradona è squalificato per doping e viene invitato a giocare in Colombia. Il campo è nel carcere La Catedral di Medellin. La prigione personale di Pablo Escobar.
Napoli come la periferia di Buenos Aires. Come un posto capace di curare tutte le ferite. Ma anche di inciderne di nuove. Perché Napoli è la città che più di tutte esaspera le contraddizioni dell’argentino, che mostra quell’equilibrio delicato fra il superuomo in campo e la persona estremamente fragile fuori. Napoli è la città dove le sniffate degenerano in tossicodipendenza, delle foto in compagnia di Carmine Giuliano. È la città dove il Mondiale del 1990 prende tutta un’altra piega. Per l’Argentina, per l’Italia, per Maradona. Si gioca in un San Paolo che proprio non riesce a rinnegarlo. Neanche per una giornata. Il tifo per gli Azzurri è più flebile, ingigantisce le paure dei ragazzi di Vicini. Al resto ci aveva pensato Maradona alla vigilia. “Trovo di cattivo gusto chiedere ai napoletani di essere italiani per una sera dopo che per 364 giorni all’anno vengono trattati da terroni“. Alla fine la sua Argentina riesce a eliminare l’Italia. Ai rigori. Un affronto che nessuno gli perdonerà mai. Nella finale Roma assomiglia a Monaco di Baviera. L’inno tedesco è coperto dalle ovazioni. Quello argentino viene ingoiato dai fischi dell’Olimpico. Maradona aspetta di essere inquadrato e muove le labbra. “Hijos de puta, hijos de puta!”, ripete con disprezzo. Nella finale più brutta di sempre è la Germania a trionfare. È l’inizio del declino.
Il 17 marzo 1991 il Napoli batte il Bari 1-0. A fine partita viene Maradona viene sorteggiato per i test antidoping. E non avrà buone notizie. I risultati parlano chiaro: è positivo alla cocaina. In un primo momento viene squalificato fino a fine stagione. Ma poi le cose precipitano: Maradona vola in Argentina per staccare la spina. Ad aprile la polizia bussa alla porta di un appartamento a Calle Franklin, a Caballito. Gli agenti entrano nell’appartamento e ne riescono poco dopo con Maradona. Ha una maglietta hawaiana, jeans e scarpe bianche. Hanno trovato mezzo chilo di cocaina nascosto in un sacchetto. Mentre lo portano via come un bandido, un poliziotto gli dice “Gilipollas, eri l’eroe di mio figlio”. Diego lo fissa e risponde: “Cabrón, l’eroe di tuo figlio devi essere tu”. L’ultimo vero atto di Maradona va in scena a USA ’94. Diego vuole esserci a tutti i costi. Così si allena e si ripulisce. Vincere la Coppa diventa un’ossessione, tanto che una volta litiga addirittura con Redondo, colpevole di aver rinunciato a una partita con la Seleccion per motivi di studio. “Guarda – gli dice – per me quelli che si mettono i libri sotto braccio e mi fanno passare da ignorante sono dei figli di puttana. Ti è chiaro?”. Diego arriva al Mondiale in condizioni perfette. Ha i capelli corti e l’orecchino a sinistra. Nella gara inaugurale contro la Grecia l’Argentina vince 4-0. Tripletta di Batistuta e gol di Maradona. El Pibe scaraventa la palla in fondo al sacco e poi corre a cercare la telecamera. Con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un’urlo sovrumano, che sa di solitudine e di rivincita.
Al termine della seconda partita, contro la Nigeria a Foxborough, Maradona viene sorteggiato per i controlli antidoping. Un’infermiera bionda gli si avvicina per accompagnarlo, lui la prende per mano e s’incammina. Non sa ancora che andrà in contro al suo destino. I test sono positivi. Stavolta non si tratta di cocaina, ma di efedrina. Il suo Mondiale finisce quel giorno. Dopo la partita contro la Bulgaria Redondo gli si avvicina: “Ti cercavo – gli dice con le lacrime agli occhi – in campo ti cercavo e non riuscivo a trovarti. Tutta la partita ti ho cercato“. Diego urla al complotto, uno dei tanti che dice di aver subito nella sua vita, punta il dito contro la Fifa. “Piuttosto che far parte della loro famiglia – dirà anni dopo – preferisco essere orfano”. Ma non cambia niente. Gli ultimi anni sono fatti più di bassi che di alti. Fino a quel 25 ottobre del 1997, fino a quei passetti a centrocampo, fino a quel passaggio sulla sinistra. L’ultima partita della sua carriera. Da allora Maradona cammina in equilibrio su un filo. Gli errori continuano a venirgli perdonati. Più per rispetto al suo passato che per condivisione del suo presente. La cocaina torna a parlare per lui nel 2001, quando si ritira a Cuba per guarire dalla tossicodipendenza. “Fidel Castro è un secondo padre per me. Mi ha aperto le porte di Cuba quando in Argentina molte cliniche non mi volevano. Ho avuto con lui un rapporto unico. Gli devo molto. Gli ho parlato della mia malattia, mi ha consigliato moltissimo”, assicura. La conclusione perfetta per un uomo che era riuscito a litigare con Papa Wojtyla. “Sono stato in Vaticano, e ho visto i tetti d’oro, e dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa!”. Ma questa è solo la sua versione dei fatti, claro.