Emarginati e dimenticati dalle istituzioni, gli indigeni degli Usa si stanno impegnando per far sentire la propria voce, nonostante i problemi logistici e le limitazioni in quella che è la loro terra da millenni. Ad aiutarli, diverse associazioni impegnate nel garantire il diritto al voto nella Indian Country
In un’elezione in cui il voto per posta può limitare il rischio di contagi ai seggi, i nativi americani devono affrontare un’altra difficoltà: gli uffici postali delle riserve sono pochi e faticosamente raggiungibili. Votare di persona il 3 novembre 2020 è una sfida ancora più pericolosa per i numerosi anziani delle tribù alle prese con il rischio Covid-19. Emarginati e dimenticati dalle istituzioni, gli indigeni degli Usa si stanno impegnando per far sentire la propria voce, nonostante i problemi logistici e le limitazioni in quella che è la loro terra da millenni.
Oggi ci sono 5 milioni di nativi sul suolo americano e le tribù sono sparse in tutta la Nazione. Il coronavirus ha colpito duramente gli abitanti delle riserve, spesso con numeri più grandi di quelli degli Stati federali: la zona dei Navajo ha avuto il triplo dei casi rispetto a Wyoming e Montana. Povertà, mancanza di acqua e isolamento hanno contribuito alla diffusione del virus nella Indian Country: così viene chiamato nella sua interezza l’insieme dei territori dei nativi, ormai l’ultima concessione all’appellativo “indiani” considerato altrimenti datato e irrispettoso. “È necessario mobilitare la comunità in anticipo, a partire dalla registrazione per il voto, poiché i nativi americani sono registrati a tassi inferiori rispetto ad altre comunità – spiega l’associazione Native Vote, creata per spingere gli indigeni a registrarsi negli uffici delle contee, un procedimento obbligatorio per ottenere il diritto di voto negli Usa – Al fine di mobilitare e assistere le tribù nelle prossime elezioni, Native Vote fornisce informazioni e distribuisce newsletter e articoli promozionali, crea annunci di servizio pubblico e ospita conferenze e corsi di formazione”. L’obiettivo è quello di registrare tutti i 3,6 milioni di nativi che potrebbero votare.
Nelle sperdute ed estese riserve capita che gli indirizzi non esistano, dato che le tribù da secoli abitano in agglomerati in mezzo al deserto o nelle vaste pianure nordamericane. Anche a causa di ciò, alcuni nativi non hanno ricevuto la scheda elettorale. Persino Internet non riesce ad arrivare in ogni angolo della Indian Country e così molti indigeni non riescono a informarsi sulla politica. Gli uffici postali, quando si riescono a raggiungere dato che numerose famiglie nelle riserve non possiedono un’automobile, hanno adesso orari di chiusura limitati per le restrizioni imposte dalle autorità.
Ma la voglia di votare dei nativi non è sopita, soprattutto in questo complicato periodo. Gli indigeni desiderano contrastare le decisioni di Donald Trump, il quale non è ben visto dalle tribù dopo aver permesso la costruzione di gasdotti in alcune zone sacre di Dakota e Alabama. E il presidente ha anche disincentivato la possibilità di raccolta voti tra familiari, un’usanza diffusa che permetteva a una persona di consegnare il voto dei parenti. Trump lo ha fatto perché storicamente i nativi preferiscono i Democratici (il 51% si è dichiarato democratico, il 26% indipendente, il 9% socialista democratico e il 7% repubblicano, secondo i dati del quotidiano Usa Today), anche se di recente è stata formata l’associazione Natives for Trump. Ma per i gruppi che lottano per far votare i nativi la scelta del partito non conta, l’importante è che tutti abbiano la possibilità di esprimersi. “I tempi sono cambiati da quando andavamo in guerra per combattere per il nostro modo di vivere, per difendere i nostri accordi e la nostra sovranità tribale. Ora proteggiamo le nostre comunità e i nostri diritti andando alle urne per votare”, dicono i volontari dell’associazione Four Direction che riunisce, fra gli altri, i clan Cherokee e Sioux.