IL MANTELLO - 3/3
Con le migliori intenzioni. Il risultato però è discutibilissimo. Il mantello di Marcela Serrano (Feltrinelli) è uno di quei romanzi in cui non comprendi mai (ma davvero mai) se chi scrive sta seguendo una catarsi salvifica attraverso la scrittura, o preferisce mostrarsi in una continua, mimetica e un tantino vanesia conoscenza tra pari. Lo spunto di questo diario del lutto, e della sua relativa durissima elaborazione, riguarda la defunta sorella Margarita, morta di cancro. L’agonia, la veglia, le ceneri, l’assenza nei mesi che passano. Serrano prova a mettersi a nudo tra una traccia della memoria familiare e un frammento del presente personale. Poi fa una cosa che impedisce letteralmente al lettore di scorgere nella sua interezza lo spessore letterario della sua “riflessione”. Puntella la narrazione di continuo con citazioni altisonanti. Rilke, Tennessee Williams, Elias Canetti, Philiph Roth, Freud. Le scatole di Warhol e le sculture di Rodin. Un profluvio inesausto di frasette, aforismi, riferimenti dotti. Spesso banali come la scoperta dell’acqua calda. E non paga, li commenta pure. Come se inserire il segno di una condivisione di status (Philiph amico mio) donasse uno spessore maggiore al proprio operare. Che peccato. Perché Serrano è narratrice dal passato robusto e qui, oltretutto, ne Il mantello, si lascia andare a lampi di autentica letteratura intimista da applausi. Il capitolo 71, ad esempio, sulla terra da pascolo da cui provenivano lei e la sorella; il 31 sul rosario improvvisato scaricando le preghiere da Google; il 32 sull’amore delle due sorelle per Charlton Heston. Solo che il saltabeccare formale in capitoli spesso brevi (87 su 163 pagine) frammenta l’intensità, distrae, e il nucleo del dolore sostanzialmente si perde tra i fumi dell’ego. Voto (anche se non sappiamo cosa direbbe Freud): 6 – –