di Carmelo Zaccaria

Nel far visita ai defunti, con l’aggravarsi della crisi pandemica e la recrudescenza del numero dei contagi, assieme alla struggente commemorazione privata, saremo trasportati dentro ad un raccoglimento spirituale che non riguarderà solo una meditazione sull’angoscia della morte, ma anche una riflessione sul fondamento della nostra vita.

Il fatto di poter contare su una sempre più promettente competenza diagnostica evidentemente non basta a rasserenarci e farci sentire più protetti dalla minaccia del virus, difatti, alla fine, scopriamo come la paura e l’apprensione prevalgono sulla nostra quotidianità. Ma anche la ricomparsa improvvisa e spiazzante della morte deve aver scatenato un brusco impatto emotivo negli sguardi disorientati di un’umanità che non l’aveva da parecchio tempo sperimentata in modo così tangibile.

L’esperienza della morte in diretta, pubblica e incontrollabile, non fa più parte della dimensione umana. Così immersi in un mondo sbrigativo e accelerato non si accetta più la sua scrupolosa concretezza, abbiamo perso la dimestichezza con il suo ineluttabile e pacato perpetuarsi. In realtà ciò che ci affligge non è tanto l’idea, secondo alcuni limitante, di subire l’onta della mascherina, quanto piuttosto la fretta di chiudere la partita con il virus colpevole di aver derubato i nostri sogni baldanzosi e interrotto quella progettualità temeraria e senza meta la cui frustante velleità patisce ogni confronto con la serietà della morte.

Oggi che si muore di Covid, “in presenza”, sotto i riflettori del mondo, attraverso crudeli misurazioni quotidiane a cui non è possibile sottrarsi, riemerge quell’ossequioso e dolente richiamo che risulta difficile da dissimulare. C’è una scena nel film Baaria in cui il padre di Peppino sta per spirare da un momento all’altro e nella stanza c’è un nugolo di familiari che gli parlano. Lo pregano, una volta lassù, di portare i saluti ai propri congiunti deceduti, di tranquillizzarli e assicurarli che i bambini crescono bene. Si racconta, cioè, un mondo in cui il trapasso nell’aldilà avveniva serenamente, come traslocare in un’altra “isba”, avrebbe scritto Solzenicyn.

La semplicità della morte viene rappresentata da Philippe Aries nella sua “Storia della morte in Occidente” come “morte addomesticata”. Il sentirsi morire era un avvertimento spontaneo, si collocava nell’ordine delle cose. La camera del morente non era ancora diventata la stanza asettica, sterilizzata del paziente ricoverato in ospedale o lo schermo piatto su cui assistere ad un funerale in streaming. Agli ultimi istanti del moribondo potevano assistere anche i bambini che attraverso l’esperienza iniziatica del sonno della morte scoprivano la sacralità della vita, il suo mistero.

L’antropologo Geoffrey Gorer fa notare nel saggio “La pornografia della morte” come ai bambini, per converso, era severamente negata tutta la trafila del parto e dell’inizio della vita, restavano chiusi fuori dalla stanza del nascituro. Oggi invece, paradossalmente, la “copula” è diventata osservabile, nominabile, priva di ostacoli e di reticenze, mentre la morte “in quanto processo naturale è diventata innominabile”, fastidiosa, inaccettabile. Citare la morte è una vergogna, sono fatti e rappresentazioni che non vogliamo sentire, non vogliamo vedere. Si è persa la mistica simbiosi che unisce strettamente la vita e la morte, quella “corrispondenza di amorosi sensi” evocata nei Sepolcri.

La frattura del Covid ci fa apparire la nostra vita cupa e rassegnata, senza più orizzonti e senza scopi, mentre è stato proprio l’ostracismo della morte, la sua esclusione dalla vita di tutti i giorni, l’averla relegata nel mondo del proibito e del morboso che ha finito per contaminare la nostra esistenza di umori aridi e ostentati e farci riscoprire i nostri limiti di uomini sottoposti al cosmo, storditi dall’esibizione a volte allucinante di una vita di corsa, desiderosa di successo, ma in gran parte dominata dall’effimero.

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