Gigi Proietti e il teatro. Mandrakate, marescialli, barzellette, divani dei talk. Nulla sarebbe potuto accadere senza quella presenza istrionica, totalizzante, estrema sui palchi a calcare la scena prima di ogni altra cosa per almeno vent’anni. Perché se un giorno ci fermassimo solo a guardare cos’è stato il teatro italiano tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, rimarremmo semplicemente a bocca aperta. È lì che abbiamo cominciato a “parlare” una lingua matura e nazionale di cui Proietti – morto oggi a 80 anni – è stato l’interprete più naturalmente popolare. Lo studioso Marco De Marinis nel suo Capire il teatro (Bulzoni) definisce la tendenza prorompente dell’epoca come “spettacolo solistico”. L’assolo, il monologo che racchiude recitazione, canto, mimo, talvolta anche performance danzante. Un’autentica novità/trasgressività rispetto al teatro della tradizione e della prosa, dalla quale pur Proietti veniva. Ed è come se tra i testi shakespeariani, tra i classici, risiedesse l’esperienza su cui appoggiarsi per proseguire rifondando. Dario Fo, Paolo Poli, Carmelo Bene, ma a loro modo anche Gian Maria Volonté e Giorgio Albertazzi, e più avanti il Cioni Mario di Roberto Benigni, sono l’architrave di un cambiamento sulla scena che non farà altro che mutare ulteriormente, trasformarsi di decennio in decennio, in un’ulteriore versione più politicamente impegnata nel teatro civile.
Proietti è una curiosa, ricca, succosa, deviazione della tendenza solistica. Un altro storico del teatro come Paolo Puppa (Teatro e spettacolo – Laterza) definisce Proietti “l’epigono delle destrezza ginnico-fonica di Gassman” che con uno spettacolo come con A me gli occhi please “mescola lazzi della commedia dell’arte alla tradizione dell’avanspettacolo, e coniuga insieme nella gamma contorsionistica e strabuzzante della sua mimica, Totò e Petrolini”. C’è infatti un curioso aneddoto su un altro grande del teatro popolare, anche lui, carismaticamente in scena da primo tra pari, innovatore della scena e nazionalpopolare tra Sud e Nord Italia, proprio mentre Proietti inizia la sua carriera da solista. La foto in bianco e nero con Eduardo De Filippo che punta gli occhi di Proietti dal basso verso l’alto, scrutandogli in un attimo le viscere, sparpagliandole in aria e leggendoci l’infinito talento cristallino, mentre Proietti, a sua volta, con le gote pitturate da clown, risponde con un’occhiata verso il basso timida e riverente, è uno dei momenti chiave di passaggio per capire l’anima del teatro dell’attore romano.
A me gli occhi please (1976), happening oltre la tradizione di luogo e di scena al Teatro Tenda di Roma, è un contenitore scoppiettante dove l’attore si inventa lingue e dialetti, recita perfino un Pulcinella estroverso piovuto dopo un lungo monologo in inglese, mescola l’intrattenimento comico popolare con la raffinatezza dei saperi della tradizione (canto, mimo, danza) in una performance stordente e strabordante. Proietti ripeterà l’impresa nell’83 con Come mi piace. Un vero e proprio manifesto di autonomia compositiva, di visione personale del teatro. “Questo spettacolo nasce come idea di pratica teatrale, una memoria di teatro come espressione al di fuori della differenziazione o valutazione dei generi, articolata attorno ad un attore ed alle sue curiosità creative”, spiegava Proietti nelle note di regia.
“Con l’ Attore, un complesso di musicisti in scena e un gruppo di elementi intercambiabili nella recitazione, nel canto e nel ballo, secondo un’interpretazione ironica della molteplicità dei ruoli. In altre parole, si tratta di un ripasso generale, cercando nella memoria teatrale non solo la nobiltà di un classico, ma anche la tradizione “povera” dell’espressione popolare, mettendo a contrasto oppure associando situazioni create apposta con situazioni dal sapore antico, considerazioni meditate con sviluppi comici deliranti, cantate evocative con motivi del ricordo popolare, ironie coreografiche con elementi scenici allusivi”. Capite con chi si ha a che fare, insomma. Mica con un cabarettista qualsiasi. Ancora con Leggero, leggero (1991), spinge l’acceleratore sulla sua idea di teatro, nella paradossale assenza di contenuti veri e propri dentro al testo, ricamandoci continuamente attorno con una comicità inarrestabile.
Proietti, tra l’altro, assieme a Gabriele Lavia nel 1978 aveva restaurato e riaperto il teatro Brancaccio di Roma e dal 2001 al 2007 ne era stato direttore artistico cercando di insufflare nelle rappresentazioni serale la sua miscela esplosiva tra classicità e leggerezza. Infine ancora il Silvano Toti Globe Theatre, sempre a Roma, a Villa Borghese, attorno a quella scena ricreata sulla forma originale del Globe londinese di shakespeariana memoria. Proietti ci aveva speso l’anima anche qui. Lo scorso luglio, dopo la prima ondata di Covid, e con la riapertura prevista di teatri e cinema era tornato alla carica presentando la nuova stagione in un video poi diffuso sui social dove ancora era in grado di attirare l’attenzione con quattro cinque parole in croce. Sornione, inarrivabile, spassoso, a suo modo rivoluzionario, il teatro di Proietti rimarrà uno dei beni più preziosi della cultura italiana del Novecento.