Con un’uscita di scena degna del clamore di un grande del teatro e pervasa dall’umorismo surreale caratteristico del suo genio comico, Gigi Proietti ci ha salutati proprio oggi, nel giorno in cui celebrano i morti, nello stesso giorno in cui ha compiuto ottant’anni.
Che classe suprema!
Basti dire che l’unico precedente, in questa raffinata forma di commiato coincidente con la propria celebrazione, è stata una delle icone dell’eleganza del Novecento, ovvero David Bowie.
La prima cosa mi viene da dire è: Gigi Proietti non è stato solo la maschera nazionalpopolare che tutti adoriamo, con una trasversalità interregionale ormai rara per i comici romani; non è stato solo il fine dicitore di barzellette rese memorabili dal suo magistero attoriale; non è stato solo il volto di gomma delle gag irresistibili di Pietro Ammicca, il professore sbronzo di educazione sessuale che perde magnificamente il controllo a fine lezione, il cantautore esistenzialista francese della sublime “Nun me rompe er ca’” (capolavoro eguale e contrario rispetto all’originale di Jacques Brel).
Non è stato, soprattutto, solo il Maresciallo Rocca.
Gigi Proietti non è stato solo l’imitatore imbattibile dei suoi colleghi, capace di far scoppiare a ridere di sé perfino un mattatore come Vittorio Gassman.
Gigi Proietti non è stato solo “A me me piace”, in una delle più famose pubblicità della storia della televisione italiana.
Gigi Proietti non è stato solo Mandrake, icona assoluta della romanità, nel film di culto Febbre da Cavallo (trasmesso da emittenti locali quotidianamente per anni, tutti i miei concittadini coetanei ne sanno ogni battuta a memoria), enciclopedia tribale capace di immortalare per sempre il genius loci della filosofia di strada capitolina.
Gigi Proietti non è solo il più bel Rugantino, non è solo l’amato deluso che urla “Amore, amore, amore un corno” in un brano scritto da Claudio Baglioni e cantato con furia da Mia Martini.
Gigi Proietti non è solo la voce della sigla de Il Circolo Pickwick, girato da Ugo Gregoretti, in cui è accompagnato alla chitarra da un giovane allora sconosciuto, tal Lucio Battisti.
Gigi Proietti non è solo l’attore in grado di riempire uno stadio con uno spettacolo di venticinque anni prima, il memorabile A me gli occhi, please, scritto col troppo presto dimenticato Roberto Lerici.
Gigi Proietti non è solo Meo Patacca, Fregoli, Sandokan, San Filippo Neri.
Gigi Proietti è stato molto di più.
È stato l’unico, grande erede di quel genio seminale della comicità surreale che corrisponde al nome di Ettore Petrolini (sempre sia lodato).
È stato allievo di Arnoldo Foà, Giulietta Masina e Giancarlo Sbragia e maestro di Flavio Insinna, Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano, Massimo Wertmüller, Rodolfo Laganà e molti altri.
È stato brillante protagonista di uno spettacolo straordinario come La cena delle beffe di Carmelo Bene.
È stato il mancato Casanova di Fellini, bilanciando il colpo di fortuna che lo vide diventare protagonista di Alleuja, brava gente, lo spettacolo che lo lanciò, sostituendo all’ultimo minuto Domenico Modugno.
È stato sulla scena portando da attore testi non solo di Shakesperare e Moliére, ma anche di Apollinaire, Picasso, Brecht, Moravia, Gombrowicz , da regista opere liriche di Puccini, Donizetti, Mozart, Verdi, Berlioz.
È stato il volto di film d’autore per firme come Scola, Blasetti, Petri, Magni, Monicelli, Bolognini, Altman, Tavernier, Lattuada, Steno, Kotcheff, Lumet fino all’ultima apparizione nel Pinocchio di Garrone.
È stato protagonista della gag più truce e divertente del tremendo e mirabile Casotto di Sergio Citti.
È stato la voce italiana di Robert De Niro in Mean Streets, di Sylvester Stallone (nel primo Rocky!), di Dustin Hoffman, Charlton Heston e Marlon Brando, oltre che del Genio di Alladin per la Disney.
È stato Edmund Keane sul palco del “suo” Globe Theatre.
È stato maledettamente sfortunato, perché in un altro paese sarebbe celebrato come un grandissimo attore, tecnicamente dotato come pochi, tra Gassman e Bene, non solo tra i comici romani, come i pur grandi Manfredi e Sordi.
È stato un grande tifoso della Roma, ma nessuno è perfetto.
È stato, probabilmente, l’ultimo campione di una romanità sapiente, colta e popolare, splendente di sardonica saggezza, ormai smarrita nel baratro di una volgarità qualunquista.
È stato uno dei più grandi attori del Novecento, a livello internazionale.
È stato tutto questo, anche se non riusciva a dire: “Un whisky maschio, senza rischio!”, o meglio lo sapeva meravigliosamente dire in infinite variazioni errate.
Grazie di tutto, Cavaliere Nero, corri fiero e libero, finalmente ora per sempre indisturbato.