Per il bene della democrazia americana, e per il prestigio del sistema che Lincoln definì lapidariamente, of the people, by the people, for the people, ci si dovrebbe augurare una vittoria a valanga di Joe Biden o di Donald Trump. Un distacco di voti popolari e di vittorie negli Stati tale da farci chiudere la nottata del 3 novembre con il più classico gesto di fair play della politica mondiale, la telefonata di congratulazione del vinto al vincitore. Una telefonata che, però, non è solo cortesia. Tutt’altro: è un passaggio formale diventato il vero e proprio avvio del meccanismo di passaggio di consegne, o di conferma, del presidente in carica.

Per dire: in occasione delle elezioni del 2000, Al Gore concesse la vittoria a George W. Bush alla fine della notte elettorale, ma ritirò quella concessione quando emersero dubbi sul voto in Florida, e si arrese solo dopo la proclamazione della validità di esso da parte della Corte Suprema, con una maggioranza di 5 a 4. Ma nulla, neppure a quel punto, nelle leggi costituzionali e nelle procedure tradizionali, gli imponeva di farlo e di dichiararsi battuto. Gore decise di farlo, contro il parere di molti, nel partito e nell’accademia, per il bene del paese.

Ma come ormai sappiamo tutti, solo Joe Biden ha affermato pubblicamente di essere pronto a concedere la vittoria. Ed in realtà neppure lui lo farà, a meno, appunto, del cosiddetto landslide, valanga di voti che chiude ogni contenzioso.

Di fatto, la mattina dopo le elezioni potremmo trovarci con un candidato in testa nello scrutinio dei voti deposti nelle urne fisiche, e dovrebbe trattarsi di Donald Trump, e di un candidato in attesa di vedere cosa è contenuto nei molti milioni di voti inviati per posta, Joe Biden. In un’atmosfera normale l’attesa durerebbe qualche giorno, tutto sommato tranquilla. Ma sappiamo anche che Trump ha denunciato da settimane che il voto postale potrebbe, sarebbe, sarà falsato da brogli, ovviamente a vantaggio di Biden.

Potremmo avere dunque un Trump, che si proclama eletto in base ai voti che lui reputa puliti e un Biden, che col passare delle ore, torna in testa in base a voti che il presidente in carica giudica sporchi. E qui la situazione, se Trump si comporta diversamente da Gore, diventa un incubo tipo comma 22, tutto teorico a questo punto, ma su cui le migliori menti giuridiche di America stanno già lavorando.

Con un di più, perché nel 2000 entrambi i candidati erano “nuovi”, Gore era solo vicepresidente in carica. Il presidente uscente è infatti nel pieno dei suoi poteri. Su di lui non scatta nessun tipo di “semestre bianco” come quello che impedisce da noi al Capo dello Stato di sciogliere le Camere quando è in scadenza. La procedura di passaggio di consegne è tutta all’insegna del fair play ma anche, e non potrebbe che essere così per la superpotenza mondiale, della continuità assoluta del potere esecutivo, fino all’utilizzo eventuale della valigetta atomica.

I due presidenti, quello in carica e quello che giurerà, di solito si consultano in questo interregno, il primo non prende decisioni che il secondo non vorrebbe mantenere in vigore, il secondo non ostacola le eventuali decisioni di emergenza del primo. Ma è una pura questione di garbo istituzionale. L’interregno, che dura 79 giorni e affonda le sue origini nell’epoca in cui i delegati e i nuovi membri del Parlamento dovevano attraversare a cavallo migliaia di chilometri di praterie per arrivare a Washington dopo il voto di novembre, è pieno di angoli che senza un accordo possono diventare occasioni di scontro.

Focalizziamoci sul 14 dicembre. Sulla base di quelle simpatiche ma bizzarre definizioni americane, “il primo lunedì dopo il primo giovedì di dicembre”, che quest’anno cade, appunto, il 14 avviene la riunione dei grandi elettori che si riuniscono in ciascuno dei 50 Stati e formalizzano la trasformazione del voto popolare, che ha aggiudicato lo Stato ad uno dei due candidati, nella vera e propria elezione presidenziale. Per quella data, dunque, si dovrebbe sapere. E invece no.

Potrebbe, infatti, essere esplosa la battaglia legale, Stato per Stato, sulla validità dei voti postali. Che in ogni Stato sono regolati in modo diverso, sia per per la data limite oltre la quale non sono considerati più validi, sia per quella in cui si può iniziare il loro scrutinio. E che, a differenza di quelli deposti nell’urna, non sono stati sorvegliati dagli scrutatori, che possono dirimere i piccoli problemi legati alla firma, al nome completo, o alla riga su cui si è firmato, che non inficerebbero la volontà dell’elettore (come sa ogni scrutatore delle nostre elezioni) ma che possono diventare oggetto di contestazione e di ricorso rallentando tutta la procedura. E Trump ha sempre ribadito nei suoi tweet e nei suoi comizi che bisogna sapere il risultato presto se non subito. Nonostante l’epidemia di Covid abbia spinto milioni e milioni di americani ad esercitare il loro diritto col voto postale.

Immaginiamo, dunque, la polemica che sale al calor bianco, giorno dopo giorno. Ci avviciniamo al 14 dicembre. Le regole dell’interregno prevedono che la conta dei voti e l’eventuale contenzioso legale si esaurisca entro 35 giorni. Questo perché i grandi elettori devono essere proclamati entro l’8 dicembre, per avere le loro credenziali confermate dal Congresso. E se le cose non si sono chiarite? Beh, a quel punto i voti degli elettori, le schede, iniziano a contare sempre meno. Quelli che contano sono i grandi elettori.

Se restano in piedi controversie, spetta al Congresso di Washington decidere chi sono i grandi elettori nello Stato conteso. Perché gli Usa sono uno Stato federale, il voto presidenziale non è un voto popolare, come quello in Francia, ma un voto a due livelli. E’ solo la tradizione, non la Costituzione, non una legge a vincolare che la scelta sia fatta in base al voto popolare. Certo si è sempre fatto così, ma non è obbligatorio.

In occasione dello scontro tra Bush e Gore sul voto della Florida la Corte Suprema ribadì il diritto dello Stato, non dei suoi cittadini elettori, di nominare i grandi elettori. Ad un europeo abituato a leggi, magari piene di commi ma scritte, potrebbe giustamente girare la testa. Ma come? Che vuol dire? Vuol dire che nulla nella legge impedisce, in teoria, al candidato che non intende concedere la vittoria di provare a far nominare i grandi elettori dalle assemblee legislative degli Stati, ovviamente quelle in cui ha la maggioranza. Il mal di testa costituzionale è assicurato. Uno Stato repubblicano, in cui le accuse di brogli e il contenzioso legale successivo, magari portato fino alla Corte Suprema, fosse lontano dalla soluzione potrebbe legalmente dire “ragazzi non riusciamo a capire chi ha vinto, ma i grandi elettori devono essere scelti, quindi il potere costituzionalmente spetta a noi, che siamo la legale e riconosciuta espressione della volontà politica di questo stato”. Sembra un golpe. A norma di legge non lo è.

Ma non è finita qui, purtroppo. Sei degli Stati maggiormente contesi hanno maggioranze legislative repubblicane, ma quattro di questi hanno un governatore, cui spetta la proclamazione dei grandi elettori, democratico. Lo scontro politico potrebbe tranquillamente contrapporre Assemblee e Governatori, ognuno teoricamente sostenitore della diversa rappresentatività. Niente previene, a norma di legge, che si formino due diverse liste di grandi elettori, la cui reale rappresentatività dovrebbe essere decisa dal Congresso di Washington. Questo coacervo imbizzarrito di liste arriverebbe nelle mani del presidente del Senato, che è il Vicepresidente in carica, Mike Pence. Oddio.

Il dodicesimo emendamento alla Costituzione spiega cosa dovrebbe accadere a questo punto: “Il presidente del Senato dovrà alla presenza del Senato e della Camera dei rappresentanti aprire tutte le schede e i voti saranno contati”. Ma quali schede? Quelle mandate dalle Assemblee repubblicane o quelle dei Governatori democratici? Chi decide? Non c’è scritto da nessuna parte. Quelle righe sembrano indicare che la cosa sia nelle mani di Pence. Sembrano, da un punto di vista legale, è una manna per gli avvocati. Anche perché le norme contenute nel regolamento parlamentare di conteggio dei voti, sono considerate dai giuristi le più oscure e mal scritte di tutta la politica americana, e si riferiscono, tra l’altro, alla contestazione di un singolo voto, non dell’intero pacchetto di voti di uno Stato.

Qui si entra in un regime di pura fantapolitica, eppure del tutto plausibile, si potrebbero perfino escludere i voti elettorali di uno Stato contestato, ma il quorum resterebbe lo stesso rendendo infernalmente difficili le cose.

In teoria, nell’atmosfera di scontro, Nancy Pelosi, che presiede l’aula della Camera dove, come da noi, si tiene la conta potrebbe espellere i senatori e Pence, bloccando la conta. Nessun presidente sarebbe legalmente eletto in tempo per l’inaugurazione. E a quel punto la Costituzione torna a parlare chiaro, in assenza di una linea di comando, né Trump né Pence che fanno parte del ticket, né Biden sono stati eletti, è come fossero morti in un incidente d’auto, tocca proprio a Pelosi come terza carica dell’Unione giurare da Presidente…

Se a questo punto avete deciso che lo sceneggiatore di questo film di fantapolitica è un cretino, concordiamo. Ma si tratterebbe solo di un sostanziale remake di quello che accadde nel 1876 nello scontro tra Hayes e Tilden, per il quale rimando a Wikipedia. Insomma il cinepanettone americano potrebbe essere questo. Con un pubblico che, tra l’altro, ha appena comprato 17 milioni di nuove armi.

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