di Giuseppe Leocata*
Le tecnologie innovative e l’informatica hanno senz’altro giovato all’essere umano, l’homo faber, per migliorare alcune attività lavorative, produttive e di servizi, e per certi versi anche per migliorare la sua qualità della vita; non vanno – quindi – demonizzate ma utilizzate a servizio dell’Uomo.
L’esistenza umana e il lavoro dell’uomo, però – e specie con il pesante impatto del Covid – non vanno più in scena “in presenza” ma bisogna in molti casi cercarli “in remoto”. Non siamo più visibili, dobbiamo ‘navigare nel virtuale’ se vogliamo mantenere una certa socialità (per così dire) senza neanche sfiorarci con una mano o guardarci negli occhi.
Si sta assistendo ad una progressiva scomposizione del lavoro con le tecnologie informatiche e anche con lo smartworking. Il virtuale finirà con lo smembrare non soltanto le realtà produttive, di servizi e i settori amministrativi delle realtà produttive, ma anche i diversi contesti sociali (soltanto ad esempio: lavoratori che operano ciascuno isolato dagli altri tra le mura domestiche, madri che – tra una faccenda domestica e l’altra o mentre accudiscono i figli – svolgono altre attività di lavoro senza tempi, modi e luoghi definiti, ‘amici’ virtuali e solo sui social network).
“Il virus ha accelerato la transizione della comunità globale verso una società contactless nella quale ancora non sappiamo come comportarci e non sappiamo dove porterà” (C. Rocca, La Stampa, 18.4.20). Ma i cambiamenti modificheranno anche la struttura urbanistica e sociale delle metropoli e avranno un impatto anche sulla salute e sul benessere dei lavoratori. “Senza i colletti bianchi, i centri urbani stanno diventando città fantasma. Per decenni, gli urbanisti hanno predicato politiche di addensamento per salvaguardare l’ambiente. Ma il modo migliore per contenere il Covid è la disaggregazione. Grazie alla tecnologia, aziende, servizi e consumi saranno svincolati dal tessuto urbano. Due pilastri del vivere in città – la cultura e il lavoro – ne soffriranno. Le città post-Covid dovranno trovare il modo di giustificare il prezzo e i rischi del vivere assieme” (F. Guerrera, La Repubblica, 5.9.20).
E così il problema concreto che si pone per la gestione della salute principalmente dei lavoratori ‘invisibili’ – e che utilizzano ‘attrezzature munite di videoterminale’ – da parte dei cosiddetti Medici Competenti aziendali dovrebbe essere quello di ripensare alla sorveglianza sanitaria da D.Lgs. 81/08 con un approccio gestionale globale, che non si può limitare al ’visitificio’ inerente soltanto all’apparato visivo per l’affaticamento visivo e a quello osteo-muscolo-scheletrico da posture incongrue.
Bisogna domandarsi, partendo dalla situazione specifica di questi lavoratori per poi allargare l’ottica a 360 gradi, se e come il Covid ha modificato qualcosa in questa attività a favore dei lavoratori. Grande è stata ed è la confusione circa la sorveglianza sanitaria; in alcune realtà è andata avanti come strumento di monitoraggio della salute della popolazione lavorativa in stretto contatto con i Medici di Medicina Generale a tutela di tutta la popolazione; in altre situazioni è stata bloccata o gestita direttamente e in modo improprio da figure tecniche, gli Rspp, che spesso sovrastano i Medici del Lavoro in diverse realtà.
Non viene pensata una prassi diversa e forse più tutelante per i lavoratori e la società. Vanno cambiate le regole del “mercato “delle visite mediche e degli accertamenti di laboratorio e strumentali con gare al ribasso, lontane da logiche di professionalità e di servizio. Sono da pensare altre regole più garantiste delle parti in gioco, magari Medici Competenti (o meglio aziende) con un rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione simile a quello dei Medici di Medicina Generale.
Senza nulla togliere all’importanza della clinica e delle visite mediche periodiche, la prevenzione negli ambienti di lavoro si dovrebbe basare più su altri aspetti e su figure con una nuova professionalità, lasciando ai Medici di Medicina Generale e agli Specialisti – da consultare al bisogno – il loro mestiere.
Penso, quindi, che sia giunto il momento di virare e cambiare direzione, pur partendo da un evento critico come il Covid. È più utile al lavoratore, ai lavoratori, all’impresa e alla società in genere che ci sia una figura di formazione medica che si occupi maggiormente degli altri aspetti correlati al lavoro e alle sue nuove forme.
Il Medico Competente aziendale, valorizzando la sua autonomia e non un ruolo subalterno all’Rspp, si dovrebbe occupare degli aspetti sanitari globali, psicologici e sociali correlati alla specifica attività lavorativa del singolo e del gruppo di lavoratori, dell’organizzazione del lavoro, della solitudine e dell’isolamento lavorativo, della mancanza di relazioni o dei rapporti conflittuali e della competitività ‘malata’ nel luogo di lavoro, dello stress lavoro-correlato, delle problematiche connesse con gli spostamenti casa-lavoro e viceversa e lavoro a casa da soli (telelavoro con maggiori tutele rispetto allo smartworking), oltre che degli aspetti ergonomici del posto di lavoro (igiene del lavoro in generale).
Il Medico Competente potrebbe e dovrebbe, quindi, diventare una figura sempre più cruciale anche in relazione alla sua formazione (che dovrebbe essere umanistica), acquisendo maggiori capacità e abilità gestionali e nell’ambito di un Sistema Sanitario pubblico più efficace ed efficiente con il quale confrontarsi e collaborare; Servizi di Vigilanza che facciano assistenza (e non consulenza) alle imprese del territorio; una Università che fa ricerca sui e per i lavoratori con la loro committenza; dei Servizi di Medicina del Lavoro Ospedalieri di reale supporto ai Medici Competenti aziendali anche per indagini sulla salute dei lavoratori e una rete con i Medici di Medicina Generale e di Specialisti per gli aspetti della salute non strettamente correlata al lavoro.
* Medico del lavoro, Ambulatorio Medicina Preventiva Lavoratori – Ospedale Maggiore Policlinico Milano, Esperto problematiche “Disabilità/ vantaggio Sociale e Lavoro”