La Consulta ha ritenuto che la motivazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza sia insufficiente. A sollevare dubbi sulla compatibilità con la Costituzione era stata la Sezione lavoro della Corte di appello di Napoli, secondo cui la riforma del governo Renzi ha è introdotto un "ingiustificato differente regime sanzionatorio" che finisce con il danneggiare i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015
La Corte costituzionale “salva” il Jobs act nella parte relativa ai licenziamenti collettivi e alle sanzioni applicate nel caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta. I giudici riuniti in camera di consiglio hanno dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Napoli sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. La Consulta, fa sapere l’ufficio stampa in attesa del deposito della sentenza, ha ritenuto che la motivazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sia insufficiente e che non sia stato chiarito il tipo di intervento richiesto alla Corte. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane. Va ricordato che nel 2018 era stato invece dichiarato incostituzionale il criterio di indennizzo per il licenziamento ingiustificato previsto dalla riforma del governo Renzi e a giugno 2020 era stata “bocciata” l’indennità prevista per i casi di licenziamento illegittimo per vizi formali.
A sollevare dubbi sulla compatibilità con la Costituzione delle norme sui licenziamenti collettivi era stata la Sezione lavoro della Corte di appello di Napoli. Secondo i giudici di Napoli in caso di licenziamenti collettivi illegittimi perché sono state violate le procedure o criteri di scelta si è introdotto un “ingiustificato differente regime sanzionatorio” che finisce con il danneggiare i lavoratori assunti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 rispetto ai colleghi assunti prima di quella data. A differenza di questi ultimi, per i primi non è previsto il reintegro nel posto di lavoro o “altra misura economica di pari efficacia”. Si è determinata così “una irragionevole disparità di trattamento tra i lavoratori” e si è introdotta solo per gli assunti dopo il 7 marzo del 2015 “una misura sanzionatoria inidonea a dissuadere il datore di lavoro dall’esercizio arbitrario del potere di recesso“.
Così si sarebbe anche realizzato “un irragionevole bilanciamento tra i contrapposti interessi del datore di lavoro ad una flessibilità in uscita e del prestatore alla conservazione del posto di lavoro”, nonché una “lesione della garanzia previdenziale“. E per la Corte d’appello partenopea l’inadeguata tutela si accompagnerebbe anche a un rimedio processuale dotato di minore efficacia dal momento che i lavoratori in questione, esclusi dal rito accelerato (c.d. “rito Fornero”), si troverebbero penalizzati dalla maggiore durata dei tempi di definizione del giudizio.