I giudici di Sorveglianza di Spoleto, Sassari e Avellino avevano impugnano il decreto del governo, che puntava a riportare in carcere i boss mafiosi scarcerati durante la prima ondata di emergenza coronavirus. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Consulta fa sapere che le questioni sono state ritenute infondate e il decreto non é in contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l’esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo
Il decreto anti scarcerazioni varato dal governo nel maggio scorso non viola la Costituzione. Lo ha deciso la Consulta che, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e dai Magistrati di sorveglianza di Spoleto e di Avellino sul decreto legge n. 29 del 2020 e sulla legge n.70 del 2020, norme entrambe relative alle scarcerazioni, connesse all’emergenza Covid, di detenuti condannati per reati di particolare gravità.
Era una norma per il “tutti dentro“, scritta per sanare una situazione d’emergenza. Il governo infatti aveva approvato il decreto legge proposto da Alfonso Bonafede che puntava a far tornare in carcere i 376 mafiosi scarcerati nelle ultime settimane. Erano tutti detenuti al 41 bis e nei regimi di Alta sicurezza che avevano ottenuto i domiciliari grazie all’emergenza sanitaria. In pratica la norma imponeva ai giudici di Sorveglianza di rivalutare in 15 giorni se sussistessero ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria. Era infatti sulla base del rischio contagio se i giudici hanno consentito gli arresti casalinghi a mafiosi, presunti boss, killer e spacciatori di droga tra marzo ed aprile.
Un decreto che il tribunale di sorveglianza di Sassari, Spoleto e Avellino avevano impugnato davanti alla Corte costituzionale. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Consulta fa sapere che le questioni sono state ritenute infondate. La disciplina censurata impone ai giudici di sorveglianza di verificare periodicamente la perdurante sussistenza delle ragioni che giustificano la detenzione domiciliare per motivi di salute. A tal fine, i giudici sono tenuti ad acquisire una serie di documenti e di pareri, in particolare da parte dell’Amministrazione penitenziaria, della Procura nazionale antimafia e della Procura distrettuale antimafia. La Corte ha ritenuto che questa disciplina non sia in contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l’esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo. La motivazione della sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.