Ao, se parla solo de voi ormai”. Me l’ha detto il cassiere dell’alimentari sotto casa, quando è saltato fuori che faccio l’insegnante. “Pare che ve sta a colpi’ solo a voi, ‘sto Covid”. Al netto del sarcasmo e dell’iperbole, non posso dargli torto: non ricordo un altro periodo in cui le vicende della scuola siano state così tanto al centro del dibattito pubblico. Di certo non avrei mai immaginato, un giorno, di finire a parlare di didattica a distanza in attesa di verificare lo sconto sullo yogurt in offerta. Il cassiere ha una sua idea: “‘sti regazzi s’assembrano eh, so’ regazzi, epperò – porelli – pure a casa davanti a un computer, ma che devono impara’?”.

Non sapevo davvero cosa rispondergli, perciò ho deciso di chiederlo direttamente ai ragazzi, cioè ai miei studenti, per qualche mese oggetto del biasimo e della deresponsabilizzazione di una certa società adulta, lesta nel prendere posizione rispetto al loro ruolo nel contagio e soprattutto solerte nel pronunciarsi sui loro destini scolastici. La mia idea personale sulla Dad è abbastanza noiosa, e cioè che abbia lo stesso valore etico di ogni strumento umano: dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto che ne richiede l’uso.

Tanto per essere chiari: le aule vuote sono una pena, uscire di casa per trovarle vuote e per collegarsi a un computer fa pena. Fa pena quella vaga sensazione di sollievo che si prova perché si capisce che il rischio di contagiare i propri cari è ridotto. La sconfitta è evidente, generale e condivisa, perciò quello che mi interessava, per sapere cosa rispondere al cassiere la prossima volta, era capire cosa ne pensassero loro.

“Meglio così che stare vicini ma distanziati, tutto il giorno con le mascherine in viso senza poter nemmeno fare ricreazione”; “La Dad è dispersiva, mi rendo conto che studiando o seguendo le lezioni da casa mi distraggo di più, è più difficile concentrarsi”; “Dipende dal docente e dalla materia, alcune materie in Dad sono più ostiche, ma mi rendo conto che questo vale per me e non per altri compagni di classe”; “Meglio farla adesso, con la speranza che in primavera si possa tornare almeno a una parvenza di normalità in presenza”.

Come prevedevo, ogni studente ha la sua visione, e il minimo comune denominatore è un’ombra di sconforto, la consapevolezza che al momento non esistano altre soluzioni per prevenire contagi, quarantene di classe (che inevitabilmente coinvolgono i docenti e le loro famiglie, quindi potenzialmente persone esterne all’ambiente scolastico) e ricadute sul sistema sanitario. Almeno nel campione di studenti con cui mi sono confrontato, negazionisti e “irresponsabili” non sono pervenuti.

A costo di passare per retorico, posso dire sia stata la chiacchierata più pacata e consapevole che abbia avuto in questi mesi sull’emergenza in corso. Magari sono un insegnante fortunato (sicuramente lo sono), ma il dato emerso che ritengo davvero interessante, al pari di questo consapevole peso della necessità storica, è quello pratico: più di uno studente lamenta problemi di connessione casalinga instabile, o mezzi tecnologici personali non sufficienti per rispondere alle richieste della Dad.

D’altronde, in un Paese in cui per accedere al wi-fi libero è necessario essere fisicamente vicini a un determinato hotspot, viviamo il paradosso di dover accedere a un medium esclusivamente privato per poterci garantire la fruizione tranquilla di un diritto costituzionale (in questo caso, quello allo studio). È chiaro che si tratta di un discorso sporadico, che non vale per tutti gli studenti, ma è proprio qui che la riflessione su scuola e pandemia acquista finalmente un interesse sostanziale.

Covid o no, la scuola non è altro che uno specchio della società in cui questa sorge. Una società che bada alle proprie strutture solo per conservarle e non per renderle virtuose o farle progredire, e che soprattutto fa confusione tra interessi pubblici e interessi privati, farà più fatica a garantire ai propri giovani un futuro al sicuro dalle proprie contraddizioni.

Una società che non è in grado di prevenire un disastro, o di programmare un percorso di uscita da un disastro non preventivabile, trova molto più facile scaricare su di essi la responsabilità delle proprie nevrosi, pontificare sulla necessità di mantenere le scuole aperte quando non ce ne sono le condizioni, con la stessa pacatezza con cui Achei e Troiani si contendevano il corpo di Patroclo, e le armi di Achille che questi aveva ancora addosso. Fortunatamente, in questo caso, Patroclo è vivo, e da qui a dicembre (non oltre, si spera) farà didattica a distanza, in mezzo a mille difficoltà. In attesa che le cose vadano meglio, sarebbe bello lasciarlo fare lezione in pace.

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