Nell’ottobre del 1986 entrò in vigore la legge Gozzini, che da un lato introdusse il carcere duro per i mafiosi e dall’altro le misure alternative alla detenzione. Già allora Mario Gozzini, cattolico progressista eletto in Parlamento come indipendente nelle liste del Pci, muovendo dalla consapevolezza che il carcere troppo spesso invece di “rieducare” peggiora il condannato, intuì che si potesse pensare a una giustizia diversa da quella repressiva.

“Che l’uomo sia liberato dalla vendetta – è questo per me il ponte verso la più alta speranza e un arcobaleno dopo lunghe tempeste”, scriveva Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”. E cos’altro è la pena se non vendetta – certo una “vendetta pubblica” – contro chi ha commesso reati? Lo è stata soprattutto quando, prima della legge Gozzini, appariva ancor più netta la separazione tra giudizio penale ed esecuzione penale, tra Tribunale e galera.

Da una parte il piano superiore del giudice che pronuncia solennemente la sua sentenza, dall’altra il sottoscala buio e sordido dell’espiazione. Il carcere era il luogo del lavoro sporco, spesso dei trattamenti brutali, altro che della “risocializzazione”! Lo racconta bene Nanni Loy nel film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), dove il protagonista, Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi), vittima per giunta di un errore giudiziario, finisce nell’inferno delle prigioni italiane, fatto di regolamenti incomprensibili, di umiliazione e di violenza.

Oggi, a 34 anni dalla riforma penitenziaria dell’86, le cose senza dubbio sono cambiate, ma la strada verso un “umanesimo della giustizia” – espressione rubata a Umberto Curi – deve passare forse dal definitivo superamento della concezione retributiva della pena, cioè della sanzione come “afflizione” proporzionata al delitto, e dall’opzione per la “giustizia riparativa”, che consideri il reato non più come una condotta lesiva dell’ordine sociale da punire con la sofferenza della reclusione ma come un comportamento che provoca sofferenza alla vittima e un danno alla comunità, e che induca il colpevole ad attivarsi per la riparazione dell’oltraggio causato.

Secondo l’Onu, per restorative justice deve intendersi “ogni procedimento in cui la vittima e il reo, nonché altri eventuali soggetti o comunità lesi da un reato, partecipano attivamente insieme alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. La “giustizia riparativa”, superando quindi la logica della repressione, richiede al reo di acquisire piena comprensione della negatività del proprio comportamento e di adoperarsi per la riparazione del danno subito dalla vittima, nell’ambito di un percorso di reinserimento sociale, favorito da mediatori e dalla comunità, che miri alla ricostruzione del legame sociale e al riequilibrio del sistema di rapporti turbato dal delitto.

La “giustizia riparativa” fa già parte da tempo del nostro ordinamento, e interviene sia in sostituzione della condanna (mediazione penale per i minori), sia sotto forma di riparazione collegata alla condanna (lavori di pubblica utilità sostitutivi della sanzione detentiva), sia come misure aggiuntive di carattere riparatorio in caso di affidamento in prova ai servizi sociali. In qualche modo, essa è stata assunta dal legislatore italiano come un dispositivo innovativo in grado di tracciare una via d’uscita di fronte alla palmare crisi del diritto penale e dell’istituzione carcere (saturazione e lentezza della macchina giudiziaria, sovraffollamento delle strutture carcerarie, effetti paradossali e negativi della pena detentiva, ecc.).

Suo presupposto indefettibile è la completa coscienza del male provocato da parte del reo, con il conseguente disagio (vergogna) e il desiderio di impegnarsi per porre rimedio al danno prodotto. Su questo terreno può essere prezioso il contributo degli appartenenti alla polizia giudiziaria. La restorative justice – me lo ripete da mesi Cristina Selmi – potrà trovare proprio nell’azione dei sindacati del comparto sicurezza una nuova spinta propulsiva.

I poliziotti hanno l’opportunità di guardare con occhi diversi l’autore del reato, non più come il malvivente da castigare ma come una persona alla quale offrire insieme nuove chance. Il carcere, come ha scritto Gozzini nel saggio “La giustizia in galera?” (Editori Riuniti, 1997), “non è un contenitore di rifiuti da tenere il più lontano possibile perché manda cattivo odore, ma una parte della società di cui siamo tutti corresponsabili“.

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