Confusione, paura, sfiducia e rabbia sembrano prevalere in questa seconda fase, ampiamente annunciata della pandemia, che fissa l’immagine di un paese emotivamente e psicologicamente lontano da quello consapevole e responsabile che aveva affrontato e superato il pesante precedente lockdown nazionale.
Allora i dati erano decisamente più drammatici rispetto a quelli attuali, elevati ma in rapporto ad un numero giornaliero di tamponi molto maggiore; allora i camion carichi di bare che a Bergamo facevano la spola tra le terapie intensive ed il cimitero costituivano un memento mori quotidiano ed implacabile per chiunque e l’Italia appariva come “l’untore d’Europa”.
E probabilmente in quella prima fase un timore superiore a quello odierno, che pure sta aumentando, può aver contribuito al rispetto diffuso per misure di forte compressione delle libertà individuali e al sentimento largamente condiviso di fiducia nei confronti di chi ha dovuto porle in essere.
In queste ultime ore precedenti all’entrata in vigore del nuovo Dpcm firmato da Conte, slittato dal 5 al 6 novembre per consentire a tutti di avere il tempo di organizzarsi, come annunciato con una nota in serata dal presidente del Consiglio, l’andamento della positività continua a salire: 30.550 contagiati, come quello dei decessi 352; ma su base settimanale anche tenendo conto dei ricoveri e dei pazienti in terapia intensiva c’è un rallentamento della curva e sembra al momento scongiurata una crescita esponenziale.
Non possiamo nasconderci che il parto di questo ultimo Dpcm è stato particolarmente laborioso – per usare un eufemismo – ed in particolare l’iter della messa a punto e della inclusione delle regioni nelle rispettive aree a rischio, gialla, arancione e rossa a cui corrispondono restrizioni crescenti sulla base dei 21 criteri epidemiologici fissati dall’Iss. E a tale collocazione, suscettibile di modificazioni secondo l’evoluzione dei vari parametri, provvede il ministro della Salute dopo “aver sentito i rispettivi governatori” con apposita ordinanza.
La dilatazione dei tempi con la relativa ricaduta di incertezza e di conseguente insofferenza e sfiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini destinatari delle restrizioni è derivata oltre che dalla oggettiva complessità della situazione dall’atteggiamento “non propriamente collaborativo”, spesso contraddittorio e schizofrenico dei governatori (e anche di molti sindaci) che dopo essere stati rilassati se non lassisti nelle settimane precedenti e fortemente deficitari sul fronte cruciale dei trasporti, denunciano “la mancanza di trasparenza” da parte del governo e “di essere stati esautorati nella definizione delle aree a rischio”.
Non a caso è dovuto intervenire con il consueto rispetto di ruoli e prerogative istituzionali lo stesso Sergio Mattarella per ricordare con cordiale fermezza al presidente e vice presidente della Conferenza delle regioni, Bonaccini e Toti che “il ruolo delle regioni è decisivo per combattere la pandemia” e che è il momento di “mettere da parte appartenenze politiche e geografiche”.
Paradossalmente e contrariamente alle pretese e rivendicazioni di autonomia in tutte le possibili declinazioni le regioni hanno dimostrato una sostanziale indisponibilità ad una leale collaborazione istituzionale e tentano di sottrarsi all’assunzione di quelle responsabilità che a parole reclamano, soprattutto quando si tratta di trattenere e gestire quattrini.
Ora si tratta, come ha ricordato il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro di partecipare ad un monitoraggio che si concretizza in un rapporto quotidiano tra Regioni, Istituto superiore di Sanità e ministro della Salute, “una cabina di regia” per far confluire dati che settimanalmente vengono analizzati, condivisi e validati, attraverso 21 indicatori da cui ricavare un giudizio di pericolosità e adeguare a questo le misure regione per regione; misure che possono essere anche scomode ed impopolari ma necessarie di cui i governatori devono assumersi la loro quota di responsabilità, anche perché, vale la pena di ricordarlo, la Sanità con la modifica del titolo V della Costituzione è entrata a far parte di un insano “federalismo sanitario” di cui avremmo fatto volentieri a meno.
Va da sé che questa è una strada percorribile e ragionevole se si vuole evitare un sostanziale secondo lockdown nazionale generalizzato: è ovvio che se, come pretenderebbe Attilio Fontana e tanti altri governatori di tutti i colori, si dovessero prendere misure uguali per tutti a livello nazionale, in quanto, sottinteso, a metterci la faccia dovrebbe essere solo il Governo, tali misure, per avere senso, non potrebbero che essere quelle più incisive e restrittive previste per l’area rossa, limitata attualmente a quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta, Calabria.
Ha senso, al di là della propaganda e della convenienza elettorale, la pretesa da parte di sedicenti paladini delle libertà, in primis quella imprenditoriale, di una penalizzazione generalizzata e non necessaria del paese con pesantissime ricadute economiche e con il rischio di vedere moltiplicate le piazze dove sulle legittime proteste dei cittadini prevale la violenza organizzata?