I finanziamenti forniti ai Paesi in via di sviluppo per per la lotta al cambiamento climatico sono passati da 71,2 miliardi di dollari a 78,9 miliardi nel 2018, aumentando sì dell’11% rispetto all’anno precedente, ma restando lontani dall’obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020, stabilito al vertice Onu di Copenhagen nel 2009. Sono passati oltre dieci anni e il problema del mancato raggiungimento della somma stabilita non è l’unico. Come si evince dai dati dell’ultimo rapporto Ocse, intitolato ‘Finanziamento climatico fornito e mobilitato dai Paesi sviluppati nel 2013-2018’, non solo le risorse non sono sufficienti, ma vengono erogate per la maggior parte sotto forma di prestiti. Inoltre, invece di essere destinate a progetti di adattamento, ad oggi sono destinate al taglio delle emissioni di gas climalteranti.
I FINANZIAMENTI AI PAESI IN VIA DI SVILUPPO – Il rapporto costituisce la terza valutazione Ocse sui progressi compiuti verso la realizzazione dell’obiettivo. L’incremento, precisa l’organismo per la cooperazione e lo sviluppo economico, è dovuto all’innalzamento dei finanziamenti climatici pubblici, mentre le fonti private sono rimaste stabili. Nel 2018, infatti, i primi hanno raggiunto i 62,2 miliardi di dollari e di questi 32,7 miliardi sono arrivati attraverso finanziamenti bilaterali (con un aumento del 21% rispetto al 2017), mentre altri 29,6 miliardi sono rappresentati dai finanziamenti multilaterali (con un aumento dell’8%). I finanziamenti privati sono passati da 14,5 a 14,6 miliardi di dollari. Ci pensano, dunque, i vari Stati ma non solo attraverso sovvenzioni a fondo perduto, quanto (sempre più spesso) attraverso prestiti, che questi Paesi in via di sviluppo dovranno ripagare. Tant’è che tra il 2013 e il 2018 la quota dei prestiti è passata dal 52 al 74% e, al contempo, le sovvenzioni sono calate dal 27 al 20%. La quota delle sovvenzioni è più alta, però, nei Paesi a basso reddito (è al 42%), mentre quella dei prestiti è più elevata (raggiungendo l’88%) nei Paesi a medio reddito. Secondo il recente rapporto di Oxfam Climate Finance Shadow 2020 poi, questi prestiti vengono erogati a condizioni non agevolate. Questo, per esempio, significa che al totale bisogna sottrarre anche i tassi d’interesse.
LA DESTINAZIONE DEI FINANZIAMENTI – L’Accordo di Parigi, poi, prevede di destinare questi finanziamenti sia in interventi di mitigazione, per tagliare cioè le emissioni climalteranti (per esempio con progetti legati alle energie rinnovabili) sia in interventi di adattamento, ossia tesi ad aiutare determinate comunità a fare i conti con una crisi climatica che è già in atto, cercando ad esempio di limitare i danni che potrebbero essere provocati da eventi estremi, quali alluvioni o inondazioni. Il problema è che, stando ai dati del rapporto, il finanziamento complessivo per il clima nel 2018, è stato destinato per circa il 70% ad attività di mitigazione con iniziative di riduzione delle emissioni di gas e solo il 21% è andato a progetti che si occupassero dell’adattamento al cambiamento climatico. Eppure è proprio questo aspetto che richiede uno sforzo maggiore nelle donazioni, visto che sono gli eventi estremi ad avere le conseguenze più gravi sui Paesi in via di sviluppo. Allo stesso tempo, queste aree del mondo sono anche quelle con livelli medi o bassi di emissioni. Oltre la metà dei finanziamenti, poi, è stata destinata alle infrastrutture economiche (soprattutto nel settore dell’energia e dei trasporti), l’altra metà invece è andata per la maggior parte all’agricoltura e alle infrastrutture sociali, in particolare acqua e servizi igienico-sanitari.
CHI DONA, A CHI – L’Unione Europea è ancora il maggiore donatore, mentre dal 2017 gli Stati Uniti con alla Casa Bianca Donald Trump hanno ridotto notevolmente il loro contributo. Per quanto riguarda i Paesi destinatari, secondo l’Ocse i finanziamenti non sono diretti in modo da rispondere ai bisogni effettivi dei Paesi. Tra il 2016 e il 2018, quasi il 70% di tutti i fondi per il clima è andato a paesi a reddito medio, mentre i Paesi meno sviluppati ha ricevuto appena il 14% della quota totale messa a disposizione, mentre ai piccoli stati insulari in via di sviluppo è andato appena il 2%. E, come fa notare Oxfam, proprio “sono proprio questi piccoli Paesi a subìre più di altri gli effetti del cambiamento climatico”.