Al primo impatto viene da sorridere, leggendo la lettera inviata il 4 novembre agli studenti delle scuole superiori da Marco Ugo Filisetti, direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale delle Marche, in occasione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate. Mi ha ricordato un po’ i lunghi discorsi che, in occasioni analoghe, ci rifilava – per mezzo dell’altoparlante interno – il preside che avevo ai tempi del Ginnasio, nel Liceo Classico “Lorenzo Costa” di La Spezia.

Con la differenza che le parole del mio ex preside, nonostante risalgano a quasi mezzo secolo fa, erano molto più all’avanguardia di quelle bellicose appena usate da Filisetti. Infatti quest’ultimo più che all’avanguardia sembra a misura di avanguardista: era il nome dei ragazzi dai 14 ai 18 anni che, durante il regime fascista, venivano obbligatoriamente inquadrati nelle organizzazioni giovanili mussoliniane (prima l’Opera Nazionale Balilla, poi la Gioventù italiana del Littorio).

Sorvoliamo sul fatto che il dirigente scolastico sia già noto alle cronache perché è stato sindaco di centrodestra a Gorle (Bergamo), dove si è reso protagonista di svariate sfuriate (alcune finite davanti ai giudici), e perché era stato chiamato a Roma, come dirigente superpagato, dall’allora ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, bresciana e soprattutto berlusconiana. Semmai concentriamoci sulla lettera, vergata sopra la carta intestata di quel ministero.

Nel suo testo, Filisetti usa tra virgolette, senza citare la fonte, le parole di Giovanni Gentile (1875-1944): grande filosofo seppur criticato per le posizioni politiche, ministro della Pubblica Istruzione durante il Ventennio, grande sostenitore del regime fascista e della Repubblica sociale italiana, ucciso dai partigiani nel 1944. La lettera: “In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria, una gioventù che andò al fronte e là vi rimase. Una gioventù lontana dai prudenti, dai pavidi, coloro che scendono in strada a cose fatte per dire: ‘Io c’ero’. Giovani che vollero essere altro, non con le declamazioni, ma con le opere, con l’esempio, consapevoli che (ecco la citazione carpita a Gentile, ndr) ‘un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza’. Combatterono per dare un senso alla vita, alla vita di tutti, comunque essi la pensino. Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE! (scritto tutto maiuscolo, ndr)”.

Questa strombazzata retorica ha già suscitato varie interrogazioni parlamentari (firmate da un parlamentare del Pd e da uno di Leu), la reazione dell’Anpi (Associazione nazionali partigiani d’Italia), che parla di “retorica bellicista, intrisa di nazionalismo”, e quella della Cgil. Nel frattempo la lettera ha fatto il giro del web, suscitando rabbia mista a ilarità. Tuttavia, al di là dei sorrisi amari, è il caso di chiedersi se l’esaltazione della morte in trincea “per dare un senso alla vita” sia degna di un Paese come il nostro; un’Italia uscita dalle due guerre mondiali del XX secolo con milioni di morti, feriti e invalidi tra civili e militari (per non parlare delle altre decine di milioni di vittime in tutto il mondo).

A ben vedere, però, la lettera di Filisetti non è un “buffo” reperto di archeologia militarista e fascistoide. Si tratta semmai di un documento sorprendente nella sua attualità. Perché quel messaggio non viene dal passato, bensì dal presente. E testimonia un persistente radicamento di atteggiamenti bellicisti che hanno fatto fin troppi danni nel corso delle nostre vicende storiche. Eppure, a quanto pare, quegli atteggiamenti sono ancora parte dell’armamentario di certe fasce della società: nelle Marche finiscono sulla carta intestata del ministero dell’Istruzione; in altre circostanze piombano negli slogan di certe frange estremiste, quelle che vediamo anche in questi giorni, intente a strumentalizzare legittime e pacifiche proteste.

Basta prendersela con Filisetti, per altro non nuovo a quel tipo di sceneggiata “patriottica”? No, non basta. Anzi, scegliere quello strano dirigente scolastico come capro espiatorio è troppo comodo. Diciamo che è persino inutile, se non si capisce che è ora di tornare a insegnare nelle nostre scuole in modo appropriato la storia contemporanea (e non solo quella contemporanea). Deve essere chiaro: la lettera di Filisetti è l’altra faccia del pressapochismo con cui l’insegnamento della storia viene rifilato agli studenti; allievi spesso incapaci, come troppi dei loro insegnanti, di capire quanto si debba conoscerla per comprendere il presente ed essere meno vulnerabili di fronte ai fanatici di turno.

Quindi qualcuno colga l’occasione per spiegare ai giovani, anche durante le lezioni online imposte dalla pandemia, che la Grande Guerra è stata “grande” solo per il dolore immane che ha inflitto. Si usi questa vicenda per chiarire che di certo c’è stato all’epoca che si è sacrificato per ideali legittimi, però la “bella morte” non esiste e non è mai esistita. Forse qualche adolescente in più riuscirà a capire che ci sono alternative pacifiche: sempre.

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