Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.
Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.
I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.
Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.
Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcio: il 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.
LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.
CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.
PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.
CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.
ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.
Politica
Le capriole di Fontana e degli altri governatori su zone rosse e criteri: prima era “competenza del governo”, ora è “inaccettabile”
Il presidente della Lombardia, fin dal caso di Alzano e Nembro, ha sempre sostenuto che la scelta sulle zone rosse spetti a Roma. Ora che Palazzo Chigi ha provveduto, la decisione è diventata "inaccettabile". Anche Spirlì in Calabria e Cirio in Piemonte contestano i parametri adottati: eppure sono stati decisi e condivisi insieme alle stesse Regioni, che sono rappresentate anche nella cabina di regia che effettua il monitoraggio. Finché servivano per allentare la stretta, nessuno li aveva criticati. Anzi in quel caso i presidenti di regione chiedevano "autonomia" nelle scelte. Quando invece i numeri sono tornati a salire, è partito il "gioco del cerino"
Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.
Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.
I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.
Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.
Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcio: il 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.
LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.
CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.
PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.
CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.
ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.
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Roma, 22 feb. (Adnkronos) - Standing ovation dalla platea della convention Cpac a Washington al termine dell'intervento video della premier Giorgia Meloni. Un intervento nel quale la presidente del Consiglio ha richiamato valori e temi che uniscono conservatori europei e americani, a partire dalla difesa dei confini, ribadendo la solidità del legame tra Usa e Ue. "I nostri avversari - ha detto Meloni- sperano che il presidente Trump si allontani da noi. Ma conoscendolo come un leader forte ed efficace, scommetto che coloro che sperano nelle divisioni si smentiranno".
"So che alcuni di voi potrebbero vedere l'Europa come lontana o addirittura lontana o addirittura perduta. Vi dico che non lo è. Sì, sono stati commessi degli errori. Le priorità sono state mal riposte, soprattutto a causa delle classi dominanti e dei media mainstream che hanno importato e replicato nel Vecchio Continente", ha affermato la premier.
La presidente Meloni ha fatto un passaggio sull'Ucraina ribadendo "la brutale aggressione" subito dal popolo ucraino e confidando nella collaborazione con gli Usa per raggiungere una "pace giusta e duratura" che, ha sottolineato, "può essere costruita solo con il contributo di tutti, ma soprattutto con forti leadership".
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - Le "elite di sinistra" si sono "recentemente indignate per il discorso di JD Vance a Monaco in cui il vicepresidente ha giustamente affermato che prima di discutere di sicurezza, dobbiamo sapere cosa stiamo difendendo. Non stava parlando di tariffe o bilance commerciali su cui ognuno difenderà i propri interessi preservando la nostra amicizia". Mo ha sottolineato la premier Giorgia Meloni nel suo intervento al Cpac.
"Il vicepresidente Vance stava discutendo di identità, democrazia, libertà di parola. In breve, il ruolo storico e la missione dell'Europa. Molti hanno finto di essere indignati, invocando l'orgoglio europeo contro un americano che osa farci la predica. Ma lasciate che ve lo dica io, da persona orgogliosa di essere europea - ha detto ancora - Innanzitutto, se coloro che si sono indignati avessero mostrato lo stesso orgoglio quando l'Europa ha perso la sua autonomia strategica, legando la sua economia a regimi autocratici, o quando i confini europei e il nostro stile di vita sono stati minacciati dall'immigrazione illegale di massa, ora vivremmo in un'Europa più forte".
(Adnkronos) - "I nostri avversari - ha detto Meloni- sperano che il presidente Trump si allontani da noi. Ma conoscendolo come un leader forte ed efficace, scommetto che coloro che sperano nelle divisioni si smentiranno. So che alcuni di voi potrebbero vedere l'Europa come lontana o addirittura lontana o addirittura perduta".
"Vi dico che non lo è. Sì, sono stati commessi degli errori. Le priorità sono state mal riposte, soprattutto a causa delle classi dominanti e dei media mainstream che hanno importato e replicato nel Vecchio Continente".
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "So che con Donald Trump alla guida degli Stati Uniti, non vedremo mai più il disastro che abbiamo visto in Afghanistan quattro anni fa. Quindi sicurezza delle frontiere, sicurezza delle frontiere, sicurezza energetica, sicurezza economica, sicurezza alimentare, difesa e sicurezza nazionale per una semplice ragione. Se non sei sicuro, non sei libero". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un messaggio al Cpac.
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"E lo abbiamo fatto insieme negli ultimi tre anni in Ucraina, dove un popolo orgoglioso combatte per la propria libertà contro un'aggressione brutale. E dobbiamo continuare oggi a lavorare insieme per una pace giusta e duratura. Una pace che può essere costruita solo con il contributo di tutti, ma soprattutto con forti leadership".
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Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "I nostri avversari sperano che Trump si allontani da noi. Io lo conosco, e scommetto che dimostreremo che si sbagliano. Qualcuno può vedere l'Europa come distante, lontana. Io vi dico: non è così". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un messaggio alla convention Cpac a Washington.