Svuotate lo scaffale dei libri. C’è da riempirlo tutto con Tempi duri (Einaudi) di Mario Vargas Llosa. 19esimo romanzo, apnea storico-letteraria lussureggiante e mitragliante, incastonata nel cuore del Novecento del Centro America. Racconto di almeno un paio di presidenze illuminate del Guatemala, quella del professore Aravelo e quella del colonnello Arbenz sul finire dei quaranta/inizio cinquanta, che poi si allarga a cerchi concentrici caraibici dei coevi intrighi politici in Repubblica Domenicana, Honduras e Haiti. Paesi a sovranità limitatissima, con una lunga e violenta ombra anticomunista della CIA (“la matrigna”) e della presidenza Usa nel “cortile di casa”, qui in versione ufficiale come United Fruit Company (mai una tassa pagata in vita loro, proprietaria di mezzo Guatemala). E ancora: indios e gringos, riforme agrarie rivoluzionarie, congiure militari, golpe, colpi di stato e mezze figure cospiratrici ovunque. Vargas Llosa si documenta con fare certosino, poi romanza fatti e personaggi celebri, politici in primis, militari, (finti) diplomatici, spie, bordelli, dialoghi al vertice, scontri armati. E lo fa tornando all’impronta formale tra modernismo e postmodernismo che l’ha reso celebre (La guerra della fine del mondo, La festa del caprone): immaginando le trame generali, maiuscole, ufficiali dell’epoca; smazzando una manciata di incredibili personaggi realmente vissuti; dipanando una complessa e affascinante struttura del racconto dove spesso appaiono capitoli a dialoghi intrecciati (due conversazioni che avvengono in momenti temporali diversi ma che si susseguono alternate periodo dopo periodo) o nel dualismo incalzante tra capitoli sovrapposti (prima un capitolo dove si espone un accadimento e in quello successivo si torna a ripercorrerlo da capo attraverso un altro personaggio protagonista). Tra colonnelli presidenti, mogli e amanti influenti, ambasciatori che portano pene e inferno, il cuore politico del racconto sciocca come ha saputo fare spesso Vargas Llosa, oscillando per quarant’anni tra ribellione e reazionarismo: è l’intervento armato nordamericano che ha contribuito a diffondere il mito insurrezionale socialcomunista nell’America Latina quando a governare c’erano onesti riformatori democratici vittoriosi dopo libere elezioni. Concordi o meno con l’assunto, l’autore non spettacolarizza qualsivoglia eroe (quando lo fa è per ricordare un giovane cadetto di origini popolari ma non certo un Che Guevara) e inietta nelle vene della sua galoppata storica un’energia brulicante vita e morte, un sarcasmo acidissimo verso tiranni e loro tirapiedi (il dettaglio sui rosacroce del sadico sgherro domenicano Abbes Garcia è da urlo), un senso di giustizia sociale e di idealità etica pura ed intonsa che non sappiamo più oggi decifrare. Ad 86 anni l’autore peruviano offre ancora una scrittura asciutta, lucente, misurata con precisione su periodi di tre quattro righe, cadenzati ritmicamente ogni sei sette parole da una virgola come se fosse una macchina letteraria da guerra. Infine, il coup de theatre. L’ultimo capitolo (“Dopo”) con il ritrovamento/testimonianza di una donna, Marta Parra/Miss Guatemala, scheggia impazzita e ai più sconosciuta, con più responsabilità politiche sui fatti presentati di qualsiasi altro uomo del racconto, intervistata ai giorni nostri in dieci pagine da Pulitzer. Voto: un 8 politico
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