Se il Coronavirus aveva iniziato il suo giro del mondo partendo dai crudeli wet market cinesi (mercati di animali selvatici), è negli allevamenti intensivi di visoni in Danimarca (allevati per farci pellicce) che ha trovato un nuovo ambiente ideale per replicarsi, evolvere e subire mutazioni, infettando almeno 200 umani.
E così è arrivata la decisione: sterminare tutti i 15 milioni di visoni allevati in Danimarca, prima che si diffonda la mutazione del Covid. Tanti erano questi piccoli animali in cattività: animali che in natura vivono liberi tra foreste e torrenti. Nei luoghi dell’orrore nascono flagelli, dovevamo averlo imparato. La natura non perdona.
Si spera che la strage di queste milioni di bestiole innocenti dia una scossa alle coscienze, e ponga fine una volta per tutte al mercato assurdo delle pellicce (che conta vari allevamenti anche in Italia, per nulla sicuri come denuncia la Lav), e che si chiudano anche tutti gli allevamenti intensivi da carne e latte, serbatoi di patogeni e luoghi macabri di tortura. Ma purtroppo il Parlamento Europeo ha da poco votato la Pac, confermando i finanziamenti e sussidi agli allevamenti intensivi.
La scienza è chiara: il 75% delle malattie emergenti sono zoonosi, e saranno sempre più devastanti se l’uomo aumenterà il suo impatto sul pianeta. Più le foreste saranno devastate, meno habitat ci sarà per gli animali selvatici, più aumenteranno le possibilità di entrare in contatto con l’uomo (senza parlare dello scioglimento del permafrost, col rischio che si liberino batteri e microbi antichi conservati nel ghiaccio permanente).
I focolai delle peggiori epidemie di questi ultimi anni (mucca pazza, Ebola, influenza aviaria H5N1, influenza suina H1N1, virus Zika, Sars, nuovo Coronavirus), secondo vari studi, sono associati agli allevamenti intensivi, ai livelli insostenibili di caccia e di traffico di animali selvatici, alla perdita di habitat naturali (soprattutto foreste).
Siamo incontenibili, ingordi: per ogni essere umano, nel mondo ci sono 30 animali allevati (compreso pollame e pesci). Negli allevamenti intensivi gli animali sono costretti in spazi ristretti, alimentati a forza con mangimi a base di soia (che a sua volta deriva da monocolture causa di deforestazione). Animali che vivono un quarto della loro vita naturale, costretti a riprodursi e figliare con ritmi assurdi, utilizzati per la produzione del latte o macellati per la carne.
Uno stress crudele, sovraffollamento, dolore, ferite… tanto che la maggior parte degli antibiotici (solo in Italia parliamo del 70% sul totale venduto) viene utilizzata negli allevamenti intensivi, anche a scopo preventivo: questo porta al problema dell’antibiotico-resistenza, altra emergenza sanitaria globale.
I grandi allevamenti estensivi, d’altra parte, non hanno di certo un minore impatto: tipici dei paesi del Sud del mondo, come il Brasile, sono frutto di deforestazione e incendi. Gli allevamenti estensivi degradano il suolo, che a sua volta diventa meno produttivo, e riduce la sua capacità di assorbire la CO2. Questo peggiora gli effetti del cambiamento climatico, che a sua volta rafforza i processi di degradazione della qualità del suolo. Senza parlare dello spreco di acqua: un terzo di tutta l’acqua potabile usata dall’uomo e destinata al bestiame, che nei Paesi a rischio di siccità prosciuga le riserve idriche.
Ovviamente la maggior parte di queste proteine animali finisce nel piatto del 20% della popolazione globale, quella più benestante, che vive nei paesi industrializzati, e che soffre di obesità, malattie cardiocircolatorie, diabete, ecc.
Dieta vegetariana e riduzione degli sprechi alimentari sono tra le soluzioni più veloci ed efficaci per invertire la rotta del riscaldamento globale, cosi dicono gli scienziati del progetto Drawdown. Negli ultimi sessant’anni il consumo di carne è invece più che raddoppiato. Nel 1961, mangiavamo circa 20 kg di carne (soprattutto pollame locale), nel 2014 gli italiani hanno mangiato 80 kg a testa di carne. In Usa si arriva in media a 220 kg di carne l’anno a testa. Oggi in Occidente ne abbiamo così tanta da strabordare, da starci male, da esserne obesi, da gettarla nel bidone. Nei paesi poveri, invece, non hanno campi da coltivare.
Chiudere gli allevamenti intensivi, vietare importazione di carne dai paesi che deforestano e lasciare aperti solo i piccoli allevamenti all’aperto, biologici. Questo ridurrebbe automaticamente l’offerta di carne nel mercato, i prezzi si alzerebbero e tutti ne mangeremmo meno.
Una società in cui gli animali vengono allevati con maggiore cura e in minor quantità diminuirebbe la pressione sui selvatici, ridurrebbe il rischio di pandemie, permetterebbe alle popolazioni povere di tornare a coltivare terre ora destinate alle monocolture per mangimi. E ci farebbe stare in migliore salute tutti.
In questa catastrofe sanitaria, ora più che mai, il genere umano deve fermarsi. La natura non ci tollera, così avidi crudeli e devastatori, e cercherà di tornare ad un equilibrio, con o senza di noi.