C’è una grande campagna siciliana e c’è una vecchia automobile, col motore a metano, che corre ballonzolando sullo sterrato. C’è un po’ di ragazzi a bordo, e anche un vecchio barbuto con gli occhiali neri. Ed ecco una cancellata sullo sfondo, è sempre più vicina, l’auto s’infila dentro nel polverone e scendono giù i ragazzi e poi, più lentamente, pure il vecchio.
E siamo a Palagonia, Sicilia vecchia e profonda, e sono i “carusi di Fava”, quarant’anni dopo, ed è l’hacienda mafiosa dei mafiosi Sangiorgio, ettari ed ettari di aranceto, e lo Stato ha deciso, dieci anni fa, di toglierglieli con la legge La Torre. Ma La Torre era rimasto sotto terra e i mafiosi invece, ridendo e sghignazzando, erano rimasti là dentro. Dieci anni. Ma ora sono arrivati i ragazzi dei Siciliani e il cancello s’è aperto, e già nel paese vicino fra i giovani disoccupati si sta spargendo la voce: “Ehi, dice che fra poco assumono per la nuova cooperativa!”.
C’è una strada deserta su a Milano, nelle luci della sera. C’è un centinaio di biciclette, ognuna con un ragazzo e uno zainetto, ciascuno a distanza regolamentare. Pedalano in silenzio, nella città vuota, non gridano perché non occorre, sanno tutti chi sono. “Siamo la generazione dimenticata – dice il loro silenzio – quelli che vi portano il cibo a casa e vivono di scatolette e di pane amaro. Noi non abbiamo diritti, non abbiamo contratto, non abbiamo interviste e dichiarazioni”. Li chiamano “riders”, una di quelle belle parole nuove, americane. Ma sono semplicemente quelli dell’Ottocento, i raccoglitori di riso, gli scaricatori dei carri, i proletari, gli schiavi. Fra un mondo elettronico e l’altro, sono ciò che abbiamo fatto dei nostri ragazzi, ed essi stasera sono qui, in silenzio, a dire che ci sono.
E c’è la pagina del giornale ancora vuota e “Qua ci starebbe bene una cosa di Lillo”, penso io. Ma Lillo è morto otto mesi fa, fra i primi del virus. Aveva affrontato i mafiosi, gli uomini di Andreotti, i bombaroli fascisti e tutto il resto, ed era già nei cortei del Sessantotto. E’ bastato una cosina microscopica a farlo fuori, quella e tutti i coglioni che “Il virus non esiste! Tutto complotto!” sbraitavano felici, e stanno sbraitando ancora.
E c’è, in un bunker lontano, un fuhrer che si guarda attorno terrorizzato, ché il suo tempo è finito e la folla del popolo-zombie, ora tornato umano, stropicciandosi gli occhi marcia disordinata e decisa verso il suo palazzo. Lo tireranno fuori scalciante e urlante, è la fine consueta di quelli come lui. Poi, forse, la vita riprenderà tranquillamente.
Tutte queste cose accadevano, piccole e grandi, in un comune momento di un’annata qualunque (un anno un po’ difficile: ma ne abbiamo passati già tanti) nel mio pianeta, quello terzo dal Sole nella Grande Galassia, che gli abitanti chiamano, quando si ricordano di avere un nome comune, il pianeta Terra.