Il 2020 ciclistico si chiude con la vittoria di Primoz Roglic alla Vuelta de Espana. Un successo che pone la Slovenia come nazione dominatrice di questo strano anno condizionato dall’emergenza Covid-19. Il piccolo Stato balcanico ha trionfato anche al Tour de France con il 22enne Pogacar, mentre il Giro d’Italia è andato al britannico Geoghegan Hart. Un anno che però ha visto anche l’esplosione del belga Remco Evenepoel (a 20 anni vincitore del Giro di Polonia), dell’australiano Jai Hindley (secondo al Giro) e di Hugo Almeida (15 giorni in maglia Rosa). Senza dimenticare i belgi Van der Poel e Van Aert, capaci di dare spettacolo al Giro delle Fiandre.
E l’Italia? Per il ciclismo azzurro è la stagione delle delusioni. Al Giro il migliore in classifica è stato il 36enne Vincenzo Nibali, arrivato settimo. Nella storia della corsa rosa è la prima volta senza italiani tra i primi cinque. Uno scenario che si fa ancora più desolante se si guardano gli altri appuntamenti. Al Tour de France il primo italiano è stato Salvatore Caruso, 33 anni, decimo. In Spagna invece Mattia Cattaneo si è piazzato alla posizione 17. Ma ciò che più preoccupa non sono tanto i risultati, quanto la prospettiva. Dietro a Vincenzo Nibali, nelle corse a tappe, non c’è nessuno. Con i giovani che faticano ad imporsi. Un’anomalia per il nostro paese, storicamente abituato ad avere ricambi generazionali immediati e di grandissimo livello.
“Nel 2021 non so quanto meglio potremo fare nei grandi Giri – analizza a ilfattoquotidiano.it il giornalista di Eurosport Italia Marco Castro – Come movimento a livello quantitativo ci siamo, ci manca la nuova punta di diamante“. Nibali “ha salvato la baracca in questi anni. È un top a livello mondiale, ma se poi scavi fai fatica a vedere qualcuno che possa primeggiare. C’è anche da dire che Nibali nella storia del ciclismo italiano, per varietà di palmares, è secondo soltanto a Coppi e Gimondi. È dura sostituire uno così. Io spero che si dedichi soprattutto alle Classiche nei suoi ultimi anni di carriera”. Tra i giovani “qualche nome c’è: Giulio Ciccone è un 1996 e Andrea Bagioli un 1999. Hanno però bisogno di tempo per essere competitivi per le corse a tappe”. E Fabio Aru? “Era l’erede naturale di Nibali dopo le vittorie alla Vuelta e il secondo posto al Giro nel 2015. Non ha avuto solo problemi fisici ma anche psicologici. Adesso ha 30 anni. Non è vecchio ma è dura rivederlo a quei livelli”.
L’unica luce è rappresentata da Filippo Ganna, campione del mondo a cronometro a Imola. Nella specialità non c’è nessuno come lui in questo momento: “È l’uomo copertina del ciclismo italiano del 2020. Ha vinto quattro tappe al suo debutto al Giro, di cui tre a cronometro. In questo momento è il più forte al mondo su questo terreno. Quest’anno ha vinto il mondiale in maniera esaltante. Molti si sono chiesti se può essere un ciclista buono anche per i grandi Giri ma io penso che bisogna andarci cauti. Secondo me invece la Ineos (il suo team) dovrebbe fargli correre le Classiche del Nord da capitano”. Ma come si può spiegare questo ritardo generazionale da parte del ciclismo italiano rispetto a molti altri paesi? “Avere poche corse a tappe a livello giovanile – conclude il giornalista di Eurosport – non ti prepara ad affrontare i grandi giri dei professionisti. Fermo restando che c’è una grandissima differenza tra le due categorie, se negli altri paesi sei abituato, già a 20 anni, a disputare corse di dieci giorni, o due settimane, è normale poi tu abbia una maggior esperienza“.
Su questo punto si è soffermato anche Davide Cassani. Il Ct della Nazionale, lo scorso 29 ottobre, ha pubblicato un lungo post sui social nel quale ha analizzato il difficile momento che il nostro ciclismo sta attraversando. “Io credo che il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche avevano a disposizione un calendario non all‘altezza e questo ha abbassato il livello della categoria”. “Mentre nel resto del mondo – continua – i ragazzi correvano ovunque facendo esperienze fondamentali, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Negli anni ’90 avevamo 7-8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello. Negli anni scorsi sono approdati al professionismo giovani corridori italiani che arrivavano da stagioni con pochissime gare a tappe e quindi non pronti al passaggio”. Una situazione però che si potrebbe capovolgere tra qualche stagione, perché “siamo riusciti – conclude il Ct nel suo post – a riportare in vita il Giro d’Italia giovani. Diverse squadre dilettantistiche sono poi diventate Continental e hanno la possibilità di gareggiare anche all’estero e contro avversari più qualificati”. Nel 2020 la corsa rosa dei giovani – riportata in auge nel 2017 – ha visto salire sul podio un italiano otto anni dopo il secondo posto di Fabio Aru. Kevin Colleoni si è classificato terzo.