Per essere un “deradicalizzato” in senso religioso, Fejzulai Kujtim ha avuto un comportamento peculiare lunedì sera a Vienna, se ha dovuto essere abbattuto prima che smettesse di sparare a donne e uomini inermi che bevevano ai caffè o giravano ignari per strada. Eppure, dopo esser stato condannato a 22 mesi nel 2019 per aver tentato di raggiungere la Siria e arruolarsi nell’Isis, era stato liberato dopo appena 6 mesi per decisione di un magistrato austriaco che ne aveva “appurato” l’avvenuta “deradicalizzazione”.
Negli stessi mesi in cui Kujtim usciva libero, in tutta Europa le autorità arrestavano, sottoponevano a misure restrittive o accusavano di pericolosità sociale o terrorismo decine di persone che, in qualità di volontari internazionali nelle Unità di protezione popolare curdo-siriane, avevano preso parte alla guerra contro l’Isis.
Quante volte in questi anni, invece, abbiamo sentito dire – da Barcellona e Parigi, passando per Londra – che i jihadisti che hanno commesso stragi erano “noti all’antiterrorismo” di questo o quel paese? Qualcosa non torna. Non è un complotto, ma qualcosa di molto più semplice e al tempo stesso più profondo.
Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz dice che l’Europa non farà un passo indietro nella difesa dei propri “valori”. È una frase che mi sembra di aver già sentito. Forse sarebbe ora di chiedersi di quali valori stiamo parlando se giovedì prossimo, 12 novembre, in Italia dovrà comparire in tribunale, in appello, Maria Edgarda Marcucci che, senza aver fatto male a una mosca nel nostro paese, ma avendo combattuto con le donne curde in Siria contro i jihadisti, è stata dichiarata il 17 marzo scorso “socialmente pericolosa” e in gran parte privata preventivamente delle sue libertà individuali.
Non si tratta di problemi austriaci o italiani. Come il sangue che scorre nelle strade, è un problema europeo ed è un problema di mentalità. Le idee orientate a sinistra di molti combattenti europei anti-Isis sono considerate da alcuni – o il loro “esempio” – più pericolose della reale volontà di morte di integralisti islamisti acclarati.
Così mentre Kujtim preparava il mitra, il machete, la pistola e la falsa cintura esplosiva nei giorni in cui salutava “come una persona normale” i vicini di casa (lo hanno detto loro), Maria Edgarda, che non ha mai fatto mistero di aderire a manifestazioni e battaglie pubbliche per questioni rispettabilissime e per questo, nero su bianco, è stata dichiarata dal tribunale un “pericolo pubblico“, rincasava ogni sera per obbligo alle 21 e restava a casa fino alle 7, con o senza lockdown, doveva comunicare ai commissariati di polizia ogni suo spostamento e rinunciava il 27 ottobre, per le restrizioni alla libertà di parlare in pubblico che le sono imposte, ad essere audita dalla Commissione Segre del Comune di Torino, che pure avrebbe voluto ascoltare la sua testimonianza riguardo alle donne con cui ha collaborato in Siria contro i fondamentalisti nel 2018 – proprio mentre Kujtim cercava di raggiungere le bande che tentavano di massacrarle.
Forse i concetti di “radicalità” e “pericolosità” dovrebbero essere ridiscussi, o riportati al loro senso originario. Questo ci permetterebbe di dare più sostanza a “valori europei” tanto sbandierati quanto dimenticati. Radicalità è, se guardiamo all’etimologia, andare alla radice dei problemi per risolverli. Usare la medicina o il distanziamento o il lockdown per sconfiggere il Covid è radicale; dire che il virus è una punizione divina per gli infedeli, come ha fatto l’Isis a marzo, non è radicale ma stupido.
Sono stati radicali la rivoluzione copernicana e l’Illuminismo, mentre la violenza in nome di Dio è oscurantista. Battersi per la difesa delle pratiche anticoncezionali e abortive in Italia o per la cessazione della vendita di armi italiane alla Turchia, come da sempre fa Maria Edgarda, è magari radicale, ma in questo senso positivo, perché è affrontare il male che alle donne in primo luogo fanno gli estremismi confessionali.
Non sembra tuttavia in questo senso che giudici e poliziotti in Europa stiano intendendo la questione, o politici che agitano “valori” in quelle che a me sembrano macabre occasioni per una passerella. Le nostre vite e le nostre libertà valgono. Parole ed attribuzioni devono avere un senso, anzitutto nei tribunali. Sorvegliati davvero speciali dovrebbero essere i Fejzulai Kujtim – e ce ne sono – mentre a donne come Maria Edgarda deve essere restituita la libertà che hanno difeso, a rischio della vita, per tutti noi.