Alfredo Geraci, ex rapinatore poi passato nei ranghi della "famiglia" di Porta Nuova come estorsore, ha raccontato di aver organizzato summit tra mafiosi di livello alto. In uno di questi incontri si parlò dell’attentato al magistrato, all'epoca pm di punta della procura di Palermo che indagava sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Geraci non partecipò ma si limitò a trovare l'appartamento e a fare da "portiere" ai boss. Poi ha ricevuto alcune confidenze dal suo capo, Alessandro D’Ambrogio
Ha fornito l’appartamento dove Cosa nostra si è riunita per organizzare l’attentato contro Nino Di Matteo. Un piano di morte ordinato direttamente da Matteo Messina Denaro. A quel summit, però, Alfredo Geraci non poteva partecipare: si limitò a fare da “portiere“, accogliendo i boss che arrivavano a Ballarò. Poi raccolse le confidenze del suo capo: Alessandro D’Ambrogio. C’è anche la storia dell’attentato organizzato per assassinare l’ex pm della procura di Palermo, ora eletto come consigliere togato al Csm, tra le dichiarazioni di Geraci, l’ultimo pentito di Cosa nostra nel capoluogo siciliano. Ex rapinatore poi passato nei ranghi della “famiglia” di Porta Nuova come estorsore e tuttofare, Geraci è un “picciotto” che negli utlimi anni ha vissuto dall’interno le dinamiche della piovra a Palermo. Arrestato nel 2015, era latitante dallo 24 luglio scorso, quando la Corte d’Appello aveva ordinato per lui la custodia cautelare in carcere. A settembre la polizia lo trova una casa di Altofonte. Passano poche settimane e l’ex ladro di Ballarò decide di saltare il fosso e collaborare con la magistratura.
Come racconta l’edizione locale di Repubblica, il primo verbale dell’interrogatorio condotto dai pubblici ministeri Amelia Luise e Luisa Bettiol è stato depositato dal pm Francesca Mazzocco nel processo in cui Geraci è imputato assieme ad altri mafiosi di Palermo centro. Geraci ha raccontato degli interessi mafiosi a Ballarò, di alcune estorsioni nel centro storico, delle affari legati al contrabbando di sigarette. E poi anche di come si occupava di organizzare summit tra mafiosi di livello alto. In uno di questi incontri si parlò dell’attentato al magistrato Di Matteo, all’epoca pm di punta della procura di Palermo che indagava sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Si tratta di uno dei due summit di cui ha parlato Vito Galatolo, erede della storica famiglia mafiosa dell’Acquasanta, che nel 2014 chiese di incontrare in carcere proprio Di Matteo per raccontare il progetto di attentato preparato dai boss ai suoi danni. “Dottore – disse – i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino“.
Geraci in una di quella riunioni citate da Galatolo fece solo il “portiere”: accoglieva i mafiosi convocati nell’appartamento di Ballarò. Degli argomenti trattati, sostiene lui, è venuto a conoscenza successivamente grazie alle confidenze del suo capo D’Ambrogio. “Un giorno – racconta – mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia; Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio; Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate; c’era anche Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù per aprire il portoncino a chi arrivava”. A sentire Geraci, D’Ambrogio disse anche che durante quella riunione venne comunicato un messaggio inviato ai boss palermitani da Matteo Messina Denaro.
Un’informazione che riscontra quanto raccontato da Galatolo: secondo il mafioso dell’Acquasanta fu proprio Messina Denaro, infatti, a chiedere l’attentato ai mafiosi di Palermo “perché Di Matteo sia era spinto troppo avanti“. Erano i mesi in cui il capo dei capi Totò Riina lanciava minacce di morte al magistrato direttamente dal 41 bis, mentre le indagini sulla Trattativa – che hanno poi portato a pesanti condanne in primo grado – erano a un giro di boa. Galatolo raccontò che per assassinare Di Matteo Cosa nostra aveva acquistato 150 chili di esplosivo provenienti dalla Calabria. Dopo aver trovato il tritolo, però, i boss contattarono Messina Denaro spiegando di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo ad alto potenziale. Dal boss di Castelvetrano però era arrivata una rassicurazione: “Non c’è problema”, avrebbe scritto Messina Denaro, dato che al momento opportuno, ai boss sarebbe stato messo a disposizione “un artificiere”. I mafiosi dunque passarono a studiare l’attentato: ipotizzavano di colpire il pm o davanti casa o al Palazzo di giustizia. Vennero compiuti anche dei sopralluoghi per studiare meglio la fattibilità del piano. Poi però vennero arrestati sia D’Ambrogio che Galatolo, con quest’ultimo che decise di rivelare tutto ai magistrati. Gli inquirenti si misero a cercare il tritolo, ma secondo un altro pentito – Francesco Chiarello, altro uomo di Porta nuova – l’esplosivo era già stato spostato in un luogo sicuro. Sul caso ha indagato la procura di Caltanissetta, che tre anni fa ha dovuto archiviare il fascicolo. Per i pm nisseni il racconto di Galatolo è riscontrato: la riunione per uccidere Di Matteo ci fu, ma poiché l’attentato non venne mai realizzato non era possibile contestare alcun reato. Nell’archiviazione, però, i magistrati scrissero: “L’ordine di colpire Di Matteo resta operativo“.