Arrivano senza fare rumore in cronaca né contano nella statistica; al ritmo di circa uno al mese, sono racconti, brevi o più lunghi via mail, di donne che non conosco e che mi scrivono della violenza subìta da parte di uomini. Uomini conosciuti, vicini, frequentati da più o meno tempo ma certamente non sbucati dal vicolo buio una notte all’improvviso.
Mi scrivono della violenza, quella fisica che lascia segni visibili, ma anche di quella psicologica impalpabile e subdola di una relazione tossica che non si riesce ad abbandonare, che colpisce la psiche e mina, giorno dopo giorno, l’autostima togliendo linfa alla vita. Il fatto che io abbia alcuni luoghi pubblici dove dar conto delle loro storie, quando talvolta non si può, o non si vuole, chiedere aiuto ad un centro antiviolenza, o quando l’incontro con essi non è stato soddisfacente, sembra dare un minimo sollievo a chi si rivolge a me.
Sono soprattutto il senso di solitudine, corollario del temere di non essere credute, e l’isolamento, attuato talvolta da parte dalle altre donne, i pesanti fardelli emotivi con cui chi ha subìto violenza convive. Di un caso scrissi qualche tempo fa, provando a puntare i riflettori sulla difficile sorellanza tra le vittime; ora ne riscrivo, sollecitata da un racconto che smentisce alcuni stereotipi legati alla modalità della violenza.
“Sono Nora (nome di fantasia), ho 35 anni, ho conosciuto Renato (nome fittizio) qualche anno fa in palestra. Mi sembrava un uomo serio, dai modi garbati. Abbiamo sempre parlato del più e del meno, non ha mai fatto una sola allusione sessuale. Una sera mi invita per un aperitivo. Avevo sempre rifiutato altri inviti ma questa volta, forse per colpa del lockdown e la maggior voglia di uscire anche se non sono attratta da lui, penso che può essere interessante come persona e quindi perché no?
Ci vediamo in un locale: parliamo di sport e di cinema di cui io sono appassionata. Mi lascio sfuggire che c’è un film del mio regista preferito che voglio vedere da parecchio tempo ma che proprio non riesco a trovare. ‘Ce l’ho io, te lo presto’ risponde. Non posso credere alla mia fortuna. Proprio quel film che cerco da tanto. Sono così entusiasta e mi fido di lui: è benvoluto in palestra da tutti, mi invita a salire a casa sua per prendere il film, non ho dubbi e salgo. Sono seduta sul divano quando mi piazza un limoncello sul tavolino. ‘Questo lo devi bere, lo faccio io, sennò mi offendo’. Prendo un sorso. ‘Dai finiscilo’. Non vorrei finirlo ma per mera educazione lo faccio. E poi vedo tutto sfocato. Alcuni colori della tv mi appaiono vividi, quasi fosforescenti: è una sensazione strana, mi sento ‘estraniata’ dal mio corpo”.
Da quel momento il racconto di Nora diventa il copione di un incubo, i ricordi sono tutti legati alla mancanza di padronanza di se stessa. Fino al risveglio, che rende chiaro che per molte ore è stata incapace di avere il controllo perché è stata drogata. In ospedale, dove si reca dopo due giorni per avere la prova della sostanza nel sangue le analisi per il Ghb (la droga dello stupro, della quale spesso si parla in occasione di abusi sulle ragazze molto giovani, versata nel bicchiere in discoteca o alle feste) l’analisi risulta negativa: purtroppo se non viene effettuata entro poche ore le tracce scompaiono.
Ora Nora, dopo essersi consultata, sta valutando la denuncia. “So quello che mi ha fatto e sono certa che non l’abbia fatto solo a me. Non pretendo di essere creduta sulla parola. Non credo che riuscirò mai a dimostrare quello che lui mi ha fatto e trovare un’altra vittima di questo uomo, che sono certa sia un predatore, perché se ha usato questa tecnica con una di certo l’avrà fatto anche con altre e si sentirà potente grazie all’impunità. Vorrei però che ci fosse informazione su questo tipo di violenza: che si sapesse che può drogarti una persona che conosci (la stampa troppo spesso racconta di questi stupri come se potessero avere luogo soltanto in discoteca e ad opera di uno sconosciuto). Vorrei anche che si sapesse che queste droghe non necessariamente addormentano e inducono passività: il Ghb e Mdma producono aumento della libido, annullano i freni inibitori e creano chimicamente empatia, per cui la vittima non si sottrae alla violenza e appare consenziente”.
Pur se in buona fede talvolta si suggerisce a chi ha subìto violenza di dimenticare. Ma dimenticare, ammesso che si possa, o minimizzare (perché sei salita? Almeno non ti ha fatto del male fisico. Spero tu abbia imparato la lezione. Ci potevi pensare prima) corrisponde a invisibilizzare la violenza, di fatto negandola. Dando così potere a chi abusa, avvalorando la cultura della sopraffazione, diventando complici. Uscire dal silenzio è il primo, fondamentale passo da compiere. Tutte e tutti insieme.