A fare luce su questo fenomeno è stato uno studio condotto da Mario De Curtis, docente di Pediatria alla Sapienza e direttore della Neonatologia al Policlinico Umberto I, pubblicato sulla rivista Archives Disease in Childhood. L'analisi riguarda il Lazio
Il virus Sars Cov 2 può uccidere in molti modi diversi. Non solo in modo diretto, cioè infettando una persona. Ma anche in modo indiretto, ovvero impedendo alle persone e alle strutture sanitarie di mettere in atto comportamenti che potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte. È probabilmente per questo che, nel Lazio, negli scorsi mesi di marzo, aprile e maggio, ci siamo ritrovati con un numero triplicato di bambini nati morti. Probabilmente a causa del fatto che molte donne in gravidanza hanno saltato o rinviato visite e controlli dal medico che, in alcuni casi, avrebbero potuto evitare esiti tragici. A fare luce su questo fenomeno è stato uno studio condotto da Mario De Curtis, docente di Pediatria alla Sapienza e direttore della Neonatologia al Policlinico Umberto I, pubblicato sulla rivista Archives Disease in Childhood.
“Il periodo di riferimento combacia con quello del primo lockdown nazionale”, dice De Curtis. “Lo studio retrospettivo – continua lo specialista – ha valutato il numero di tutti i nati, dei nati molto pretermine (meno di 32 settimane di età gestazionale), moderatamente pretermine (32-36 settimane), a termine (37-41 settimane) e post termine (più di 41 settimane). Abbiamo così determinato il numero dei nati morti e dei tagli cesarei. Sono stati considerati come nati morti tutti i neonati non vitali alla nascita con un’età gestazionale maggiore di 22 settimane. Questi dati sono stati poi paragonati agli stessi osservati nello stesso periodo del 2019. Per evitare fattori confondenti sono stati presi in considerazione solo i neonati singoli e non i nati da gravidanze multiple”. Ebbene, i risultati danno poco spazio ad interpretazioni alternative. “Nel periodo considerato abbiamo osservato un aumento di tre volte dei nati morti: dai 10 del 2019 ai 26 nel 2020”, sottolinea De Curtis. “Questo dato sembrerebbe essere non l’effetto dell’infezione da Covid-19, anche perché l’incidenza della malattia nelle donne in gravidanza nell’Italia centrale, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, è molto bassa (circa 1 per 1000)”, aggiunge, specificando invece quella che potrebbe essere l’ipotesi più probabile: “sembrerebbe essere la conseguenza del fatto che molte donne, per paura di contrarre l’infezione in ospedale, non hanno effettuato adeguati controlli in gravidanza”.
I dati fanno riferimento alla sola Regione Lazio, ma se l’ipotesi degli scienziati è esatta, e cioè che il numero maggiore dei nati morti è legato al lockdown, è molto probabile che lo stesso fenomeno sia avvenuto in molte altre parti d’Italia. E forse anche di più, laddove la diffusione del virus Sars Cov 2 è stata ancora più problematica che nel Lazio. “Questo però non possiamo dirlo con certezza”, precisa De Curtis. “Il nostro studio si basa esclusivamente sui dati del Lazio”, aggiunge. Ma aumenti nella “natimortalità” sono state segnalati anche recentemente in un ospedale di Londra, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Journal of American Medical Association (Jama), e in Nepal secondo uno studio riportato in un editoriale sulla rivista Nature. “Questo ci spinge a concludere che la prevenzione della natimortalità è un dato che dovrebbe essere tenuto presente nei prossimi lockdown che vengono annunciati”, commenta De Curtis.
Abbiamo già avuto prova che, tra gli “effetti collaterali” della pandemia rientrano anche i decessi per altre malattie non tempestivamente diagnosticate o trattate come invece si sarebbe fatto in tempi “normali”. Come nel caso degli screening tumorali. Uno studio sostenuto dalla Fondazione Airc e condotto da Luigi Ricciardiello, professore dell’Università di Bologna, ha concluso che la sospensione dei controlli durante il lockdown avrebbe complicato il percorso diagnostico e terapeutico dei pazienti affetti di tumore al colonretto, tra le patologie tumorali più frequenti. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Clinical Gastroenterology and Hepatology e rilanciati in occasione della campagna I Giorni della Ricerca. “Ritardi nello screening di oltre 4-6 mesi aumenterebbero significativamente la diagnosi di casi più avanzati di cancro colonrettale, e se i ritardi superassero i 12 mesi, sarebbe destinata ad aumentare anche la mortalità”, spiega Ricciardiello: “Siamo molto preoccupati. Mentre in alcune realtà l’accesso allo screening è stato riorganizzato, in altre si è ancora molto indietro”, aggiunge.
Tuttavia, c’è una piccola ma significativa nota positiva emersa dallo studio condotto nel Lazio e cioè una diminuzione dei nati pretermine. “In particolare, dei nati moderatamente pretermine (i nati tra 32 e 36 settimane), che rappresentano la gran parte dei nati pretermine (i nati prima di 37 settimane di età gestazionale)”, precisa De Curtis. “Questo può essere interpretato come effetto del riposo forzato, della sospensione del lavoro fuori casa, della ridotta attività fisica a cui sono state costrette anche le donne in gravidanza durante il lockdown”, aggiunge. “Questo studio conferma quindi che il riposo rappresenta un fattore molto importante per ridurre la prematurità che riconosce vari fattori scatenanti e rappresenta una delle cause principali della mortalità infantile”, conclude De Curtis.
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